Finalmente a Varanasi. Finalmente in India. Venticinque ore, tra viaggio e attesa, ed ecco realizzarsi un sogno. Il mio sogno, da più di cinque anni, ormai. Da quella mattina in cui la professoressa ci ha messo in mano una pagina scritta in una lingua mai vista prima, हिन्दी ,la hindi, con tanto di figura perché altrimenti tutti avremmo preso il foglio dalla parte sbagliata। Da allora sono passati anni, ho viaggiato, certo, ma il mio desiderio più grande restava un viaggio in India. “Il viaggio”, come lo ha definito Patrizio Roversi. Ho aspettato a lungo, sperando in una qualche compagna di università con cui andare, ma invano. Allora mi sono fatta coraggio, e ho deciso di partire. Da sola. Vaccinazioni, soliti problemi burocratici dell’ultimo momento, feste di arrivederci, baci e abbracci ad amici e parenti, valigia: amuchina, qualche vestito, carta igienica, computer portatile, macchina fotografica, speranze, sogni, paure, aspettative.
I saluti all’aeroporto, e poi finalmente si parte. Scalo a Zurigo, e comincia l’avventura: Zurigo-Delhi, accanto a me una monaca tibetana con passaporto umanitario: non c’è data di nascita, né città di residenza, né cittadinanza. Sorride nel suo sorriso sdentato e mi aiuta a togliermi la felpa. Porge all’hostess un biglietto in tedesco, chiede le venga servito cibo vegetariano. Non ci capiamo, e aiutarla a compilare il modulo per entrare in India non è affatto facile, ma almeno ci abbiamo provato. Sorride riconoscente.
In aereo si comincia a chiacchierare con i vicini: un ragazzo spagnolo, Israel, un signore indiano che viaggia continuamente per lavoro, una signora salernitana, una nonnina indiana. Ci si confronta sul perché del viaggio, perché l’India. Quando dico che studio hindi mi guardano tutti ammirati, scrutano attenti e compiaciuti i miei appunti di grammatica, per non parlare di quando rivelo di chiamarmi Sonia. È un boato: Sonia come Sonia Gandhi, italiana come lei, così amata dagli indiani. E così il viaggio passa quasi in fretta, e ben presto arriva il momento dell’atterraggio.
Controllo dei documenti, ritiro della valigia.
Siamo in India! I manifesti ci danno il benvenuto a Delhi, pannelli in hindi dettano le regole da seguire per i viaggiatori. Cambio degli euro in rupie: 3840 rupie per 60 euro. Accompagno Israel a chiamare un taxi, e poi la notte è tutta mia. È ormai l’una, saluto il mio compagno di viaggio e vado nel lounge, ad aspettare la navetta per l’aeroporto nazionale di Delhi.
L’aereo per Varanasi è alle 10.40, e il tempo non passa mai. Cerco di addormentarmi sul divano in pelle nera, ma l’emozione è troppa, e Morfeo non vuole saperne di accogliermi tra le sue braccia. Vado in bagno, e sento chiaramente rumori inequivocabili provenire da fuori. Esco, e la responsabile è lì, che mi offre una salvietta dove asciugarmi e mi indica il lavabo. Per questa sua gentilezza -o forse per il concerto grosso tenutosi qualche istante prima- vuole una mancia. Per sua fortuna non ho spiccioli, e le porgo una banconota da 20 rupie (un terzo di euro, all’incirca), che guarda che occhi luccicanti e mi rivela che con quei soldi comprerà una tavoletta di cioccolato per la sua bambina, Puri.
Uno degli impiegati mi aveva detto che nel lounge non si può dormire, ma figuriamoci! Siamo in India, tutto è relativo. E nessuno mi sveglia, quando riesco finalmente ad addormentarmi, con una mano sui bagagli.
Alle 8 prendo la navetta; un altro check-in, ancora attesa, e finalmente posso salire sull’aereo che mi porterà a destinazione. Cerco di guardare dal finestrino, ma gli occhi si chiudono per il sonno, e si riaprono a fatica, grazie alla voce dello steward che mi chiede “Vegetarian sandwich?”; “No, thank you”, rispondo, e acchiappo al volo (sono in aereo, in fondo!) il mio panino al pollo e l’acqua al limone e lime in bottiglia.
Mezzogiorno: il momento del terzo -e ultimo- atterraggio, e non riesco a fare a meno di commuovermi. Le lacrime mi rigano il viso mentre scendo dall’aereo e un caldo soffocante mi avvolge nelle sue spire. La gente mi guarda e mi chiede se sto bene. Sì, certo che sto bene. Ma sono talmente felice da non riuscire a trovare le parole; annuisco e sorrido e mi avvio a prendere la valigia.
L’aeroporto di Varanasi è minuscolo: una stanzetta con il rullo per i bagagli e una, ancora più piccola, dove i miei compagni di viaggio indiani rincontrano finalmente la famiglia, mentre gli stranieri conoscono i loro accompagnatori. E io? Guardo gli ometti con i cartelli scritti a mano, con il nome delle persone che sono venuti a prendere, ma il mio non c’è. Tutti escono, contenti, io rimango sola con un poliziotto, un facchino e l’impiegato dell’aeroporto, a cui chiedo di chiamare Vishwanath, il manager della casa che sarebbe dovuto venirmi a prendere. Mi sembra di essere in quella vecchia pubblicità della Sip, alla Legione Straniera, quando Solenghi come ultimo desiderio prima dell’esecuzione chiede di poter fare una telefonata.
I saluti all’aeroporto, e poi finalmente si parte. Scalo a Zurigo, e comincia l’avventura: Zurigo-Delhi, accanto a me una monaca tibetana con passaporto umanitario: non c’è data di nascita, né città di residenza, né cittadinanza. Sorride nel suo sorriso sdentato e mi aiuta a togliermi la felpa. Porge all’hostess un biglietto in tedesco, chiede le venga servito cibo vegetariano. Non ci capiamo, e aiutarla a compilare il modulo per entrare in India non è affatto facile, ma almeno ci abbiamo provato. Sorride riconoscente.
In aereo si comincia a chiacchierare con i vicini: un ragazzo spagnolo, Israel, un signore indiano che viaggia continuamente per lavoro, una signora salernitana, una nonnina indiana. Ci si confronta sul perché del viaggio, perché l’India. Quando dico che studio hindi mi guardano tutti ammirati, scrutano attenti e compiaciuti i miei appunti di grammatica, per non parlare di quando rivelo di chiamarmi Sonia. È un boato: Sonia come Sonia Gandhi, italiana come lei, così amata dagli indiani. E così il viaggio passa quasi in fretta, e ben presto arriva il momento dell’atterraggio.
Controllo dei documenti, ritiro della valigia.
Siamo in India! I manifesti ci danno il benvenuto a Delhi, pannelli in hindi dettano le regole da seguire per i viaggiatori. Cambio degli euro in rupie: 3840 rupie per 60 euro. Accompagno Israel a chiamare un taxi, e poi la notte è tutta mia. È ormai l’una, saluto il mio compagno di viaggio e vado nel lounge, ad aspettare la navetta per l’aeroporto nazionale di Delhi.
L’aereo per Varanasi è alle 10.40, e il tempo non passa mai. Cerco di addormentarmi sul divano in pelle nera, ma l’emozione è troppa, e Morfeo non vuole saperne di accogliermi tra le sue braccia. Vado in bagno, e sento chiaramente rumori inequivocabili provenire da fuori. Esco, e la responsabile è lì, che mi offre una salvietta dove asciugarmi e mi indica il lavabo. Per questa sua gentilezza -o forse per il concerto grosso tenutosi qualche istante prima- vuole una mancia. Per sua fortuna non ho spiccioli, e le porgo una banconota da 20 rupie (un terzo di euro, all’incirca), che guarda che occhi luccicanti e mi rivela che con quei soldi comprerà una tavoletta di cioccolato per la sua bambina, Puri.
Uno degli impiegati mi aveva detto che nel lounge non si può dormire, ma figuriamoci! Siamo in India, tutto è relativo. E nessuno mi sveglia, quando riesco finalmente ad addormentarmi, con una mano sui bagagli.
Alle 8 prendo la navetta; un altro check-in, ancora attesa, e finalmente posso salire sull’aereo che mi porterà a destinazione. Cerco di guardare dal finestrino, ma gli occhi si chiudono per il sonno, e si riaprono a fatica, grazie alla voce dello steward che mi chiede “Vegetarian sandwich?”; “No, thank you”, rispondo, e acchiappo al volo (sono in aereo, in fondo!) il mio panino al pollo e l’acqua al limone e lime in bottiglia.
Mezzogiorno: il momento del terzo -e ultimo- atterraggio, e non riesco a fare a meno di commuovermi. Le lacrime mi rigano il viso mentre scendo dall’aereo e un caldo soffocante mi avvolge nelle sue spire. La gente mi guarda e mi chiede se sto bene. Sì, certo che sto bene. Ma sono talmente felice da non riuscire a trovare le parole; annuisco e sorrido e mi avvio a prendere la valigia.
L’aeroporto di Varanasi è minuscolo: una stanzetta con il rullo per i bagagli e una, ancora più piccola, dove i miei compagni di viaggio indiani rincontrano finalmente la famiglia, mentre gli stranieri conoscono i loro accompagnatori. E io? Guardo gli ometti con i cartelli scritti a mano, con il nome delle persone che sono venuti a prendere, ma il mio non c’è. Tutti escono, contenti, io rimango sola con un poliziotto, un facchino e l’impiegato dell’aeroporto, a cui chiedo di chiamare Vishwanath, il manager della casa che sarebbe dovuto venirmi a prendere. Mi sembra di essere in quella vecchia pubblicità della Sip, alla Legione Straniera, quando Solenghi come ultimo desiderio prima dell’esecuzione chiede di poter fare una telefonata.
Ma Vishwanath c’è, appena fuori dall’aeroporto. Dò la mancia al facchino, e salgo in macchina con il mio accompagnatore. La guida è, ovviamente, a sinistra. Il caldo è insopportabile. Osservo dal finestrino: uomini che dormono su assi per strada, donne che trasportano acqua, bambini che giocano, animali che scorrazzano ovunque: capre, cani e, certo, vacche. Biciclette ovunque, risciò, Ape Piaggio colorati: il nostro tassista si fa strada a furia di clacson, ma non è il solo a suonare. Arrivando nel centro di Varanasi è tutto uno strombazzare di clacson, campanelli dei risciò, rombi delle moto, che si fanno strada così nel traffico convulso di veicoli di tutti i tipi, gente, capre, cani e vacche. Dai vetri di una vecchia Tata tutto mi sembra incredibilmente pittoresco, addirittura buffo. E io mi sento così fuori posto nella mia tunichetta colorata regalatami dalla mia prof e nei miei jeans, con la mia forma mentis così occidentale, e in un secondo tutto ciò che ho letto, studiato, visto a proposito dell’India svanisce.
Dopo una mezz’ora arriviamo davanti a un negozietto, una sorta di bar. Scendiamo e scarichiamo i bagagli, che un facchino affatto nerboruto trasporta in spalla per i vicoli stretti e sporchi, mentre io mi guardo intorno senza capire dove sono. Non riesco a trovare aggettivi per descrivere ciò che vedo, sento, provo, respiro. Mi sento come catapultata in un mondo nuovo, che non conosco e non mi conosce. Con il mio zaino da trekking seguo Vishwanath come in trance, spaesata, stremata, frastornata e accaldata. Ci fermiamo davanti ad una palazzina verde acqua, il manager suona il campanello. Entriamo.
Eccomi finalmente arrivata a Ram Bhavan, accolta da Mangla, la nostra cuoca e governante, e da Amarnath, suo fratello, il factotum, che mi hanno fatto sistemare nella mia stanzetta al terzo piano, pieno di piante, e con una bellissima altalena. La stanza è piccola ma molto luminosa, con vista scimmie, che non avevo mai visto così da vicino. E soprattutto… non sapevo fossero così cattive!
Ho mangiato un po’ e poi mi sono sistemata in camera. Ho conosciuto gli altri ragazzi che stanno qui: tre di loro studiano hindi come me: uno è un ragazzo toscano, Ariele, mentre le due ragazze, Michela e Cristina, sono addirittura della mia stessa facoltà, anche loro alunne della Dolcini. La cosa non deve stupire, considerato che la maggior parte dei miei compagni di hindi che è stata in India è venuta qui a Varanasi, ovviamente a Ram Bhavan.
Stasera sono andata da sola al ghat (ovvero la gradinata che conduce al Gange) principale, dove c’era in corso una cerimonia, in onore di Durga, la Durgapuja: un centinaio di uomini su un barcone con una statua della dea, e non si sono cappottati solo perché sono riusciti a bilanciarsi. E poi è stato scioccante, assurdo, addirittura terribile: tutti che mi chiamavano, mi fermavano per chiedermi da dove vengo, per invitarmi sul loro risciò oppure nel negozio del fratello del cugino del nonno dello zio. Ho cominciato a parlare con un ragazzino, che mi ha portato da un baba a farmi dire dei mantra, senza dei quali non sarebbe stato assolutamente possibile fare la puja, cioè la cerimonia dell’offerta di fiori/dolci o altro alla divinità. Così il baba ha cominciato a blaterare frasi per me senza senso, in sanscrito. Io dovevo ripetere ma dopo un po’, ho cominciato a biascicare e mugugnare giusto per non stare zitta, visto che il tipo insisteva tanto. Quando poi mi ha domandato se fossi sposata ho detto di sì, per evitare problemi (qui alla mia età le donne sono già sposate con figli, figuriamoci), e ho dovuto anche inventare il nome. Il primo che mi è venuto in mente. Quindi, dicevo, ho dovuto ripetere i mantra anche per il mio inesistente marito. Infine, ho lasciato che il Gange cullasse le due foglie contenenti fiori e una candelina rossa ciascuna, rivolgendo un pensiero, una preghiera al mio Dio. Il baba mi ha disegnato qualcosa sulla fronte con la polvere rossa; una volta finito tutto, mi ha chiesto 200 rupie, adducendo come motivazione il fatto che, insomma, il mantra era bello potente, e poi erano 100 per me e 100 per mio marito. Gliene ho date 50, ed era già tanto. Più camminavo e più venivo attorniata da bambini che volevano vendermi cartoline, fiori, foglie per la puja. Una situazione intollerante. Poi il ragazzino che mi aveva portato dal baba mi ha portato a vedere il negozio di sete di suo fratello, ma poi ho detto che dovevo andare e sono finalmente riuscita a seminarlo. Voleva essere pagato, ovviamente, ma io gli ho assicurato che il giorno dopo sarei andata a comprare qualcosa in negozio. Contaci, proprio.
Sono frastornata, sconcertata dalla sporcizia dei vicoletti, in cui sono riuscita anche a perdermi, tanto per cambiare, dalla gente che non mi lascia un attimo, dal non riuscire a dire “che bello”, dai bagnanti delle acque luride della sacra Ganga, dalle due ragazze della mia facoltà che non mi sembrano per niente amichevoli.
Ma ora sono stanca, e ho solo voglia di dormire. E già sarà un'impresa avvolgermi nella zanzariera bianca sopra il mio letto.
Buonanotte,
Sò!
P.s.: Ho fatto bene a portare rotoli e rotoli di carta igienica, qui a casa non c’è e per strada si vende un rotolo per volta.
Dopo una mezz’ora arriviamo davanti a un negozietto, una sorta di bar. Scendiamo e scarichiamo i bagagli, che un facchino affatto nerboruto trasporta in spalla per i vicoli stretti e sporchi, mentre io mi guardo intorno senza capire dove sono. Non riesco a trovare aggettivi per descrivere ciò che vedo, sento, provo, respiro. Mi sento come catapultata in un mondo nuovo, che non conosco e non mi conosce. Con il mio zaino da trekking seguo Vishwanath come in trance, spaesata, stremata, frastornata e accaldata. Ci fermiamo davanti ad una palazzina verde acqua, il manager suona il campanello. Entriamo.
Eccomi finalmente arrivata a Ram Bhavan, accolta da Mangla, la nostra cuoca e governante, e da Amarnath, suo fratello, il factotum, che mi hanno fatto sistemare nella mia stanzetta al terzo piano, pieno di piante, e con una bellissima altalena. La stanza è piccola ma molto luminosa, con vista scimmie, che non avevo mai visto così da vicino. E soprattutto… non sapevo fossero così cattive!
Ho mangiato un po’ e poi mi sono sistemata in camera. Ho conosciuto gli altri ragazzi che stanno qui: tre di loro studiano hindi come me: uno è un ragazzo toscano, Ariele, mentre le due ragazze, Michela e Cristina, sono addirittura della mia stessa facoltà, anche loro alunne della Dolcini. La cosa non deve stupire, considerato che la maggior parte dei miei compagni di hindi che è stata in India è venuta qui a Varanasi, ovviamente a Ram Bhavan.
Stasera sono andata da sola al ghat (ovvero la gradinata che conduce al Gange) principale, dove c’era in corso una cerimonia, in onore di Durga, la Durgapuja: un centinaio di uomini su un barcone con una statua della dea, e non si sono cappottati solo perché sono riusciti a bilanciarsi. E poi è stato scioccante, assurdo, addirittura terribile: tutti che mi chiamavano, mi fermavano per chiedermi da dove vengo, per invitarmi sul loro risciò oppure nel negozio del fratello del cugino del nonno dello zio. Ho cominciato a parlare con un ragazzino, che mi ha portato da un baba a farmi dire dei mantra, senza dei quali non sarebbe stato assolutamente possibile fare la puja, cioè la cerimonia dell’offerta di fiori/dolci o altro alla divinità. Così il baba ha cominciato a blaterare frasi per me senza senso, in sanscrito. Io dovevo ripetere ma dopo un po’, ho cominciato a biascicare e mugugnare giusto per non stare zitta, visto che il tipo insisteva tanto. Quando poi mi ha domandato se fossi sposata ho detto di sì, per evitare problemi (qui alla mia età le donne sono già sposate con figli, figuriamoci), e ho dovuto anche inventare il nome. Il primo che mi è venuto in mente. Quindi, dicevo, ho dovuto ripetere i mantra anche per il mio inesistente marito. Infine, ho lasciato che il Gange cullasse le due foglie contenenti fiori e una candelina rossa ciascuna, rivolgendo un pensiero, una preghiera al mio Dio. Il baba mi ha disegnato qualcosa sulla fronte con la polvere rossa; una volta finito tutto, mi ha chiesto 200 rupie, adducendo come motivazione il fatto che, insomma, il mantra era bello potente, e poi erano 100 per me e 100 per mio marito. Gliene ho date 50, ed era già tanto. Più camminavo e più venivo attorniata da bambini che volevano vendermi cartoline, fiori, foglie per la puja. Una situazione intollerante. Poi il ragazzino che mi aveva portato dal baba mi ha portato a vedere il negozio di sete di suo fratello, ma poi ho detto che dovevo andare e sono finalmente riuscita a seminarlo. Voleva essere pagato, ovviamente, ma io gli ho assicurato che il giorno dopo sarei andata a comprare qualcosa in negozio. Contaci, proprio.
Sono frastornata, sconcertata dalla sporcizia dei vicoletti, in cui sono riuscita anche a perdermi, tanto per cambiare, dalla gente che non mi lascia un attimo, dal non riuscire a dire “che bello”, dai bagnanti delle acque luride della sacra Ganga, dalle due ragazze della mia facoltà che non mi sembrano per niente amichevoli.
Ma ora sono stanca, e ho solo voglia di dormire. E già sarà un'impresa avvolgermi nella zanzariera bianca sopra il mio letto.
Buonanotte,
Sò!
P.s.: Ho fatto bene a portare rotoli e rotoli di carta igienica, qui a casa non c’è e per strada si vende un rotolo per volta.
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