Era un po’ che dicevo di voler andare dall’estetista per fare la ceretta. Così stamattina, quando ho sentito Mili (una signora spagnola che sta qui a Ram Bhavan e che viene a Varanasi tutti gli anni per almeno sei mesi) proporre a Raji, un’altra ospite, di andare al “beauty parlour” per fare il buco al naso, ho preso la palla al balzo. Mi sono fatta spiegare bene dove si trovava, e sono partita innanzitutto alla ricerca del risciò. Siccome sono una turista, per lo più occidentale, i prezzi sono sempre più alti del dovuto. Così bisogna alzare la voce, far vedere che sono bionda sì, ma parlo hindi e non mi freghi mica. Tiè.
Salita su un risciò ho sentenziato con aria decisa e perentoria: 15 rupie! Quello c’ha provato a dire 20 rupie, ma niente da fare. Quando gli ho detto che parlo hindi ha cominciato a chiacchierare, a raccontarmi della sua famiglia, della sua casa. Mi rendo conto che trasportare fino a tre persone con due, tre bambini, su un carretto barcollante in mezzo al traffico è probabilmente tra i più mestieri più faticosi che esistano. Se non mi sbaglio ne “La città della gioia”, Dominique La Pierre narra la tristissima storia di un riksciòwalla. Uomini che dormono dentro il loro taxi a pedali, il cui unico tesoro è un lucchetto, in un ambiente in cui la competizione è terribile, e non si fa altro che denigrarsi a vicenda (quante volte mi è successo che mentre ero su un risciò ne passava un altro vuoto e il suo conducente mi diceva “Ah, ma lui è malato, non vedi? Ti farà cadere!”). Che rischiano la vita continuamente, vita che comunque -considerando l’inquinamento, il pericolo, la fatica, il dolore, i monsoni, i 50 gradi- non si prospetta granché lunga. Eppure qui gli autobus non esistono, e il risciò rimane il principale mezzo di trasporto (sebbene forse il più infame, per chi lo conduce). Mentre mi abbandonavo a queste riflessioni e ciondolavo la testa conciliante alle parole ormai incomprensibili del mio Caronte (e questo lo dico con il senno di poi, certo), un gruppo di bambini appena usciti da scuola ha circondato il risciò, salutandomi con le loro vocette squillanti. Io non ho esitato a tirar fuori la mia amata macchina fotografica, e loro, a quanto pare non aspettavano altro: si sono messi in posa e poi si rimiravano sullo schermo. Arrivata finalmente a destinazione, ho fatto una foto a Raju,il riksciòwalla, che mi ha lasciato il suo indirizzo di casa per mandargliela posta. Ovviamente non elettronica. Che tenero.
Entro nel “beauty parlour”, di fronte a me una stanza, anzi no: uno sgabuzzino con una parete azzurra. Qui è dove faranno i massaggi, mi dico. All’estetista dai tratti cinesi e dalla sari salmone chiedo il listino prezzi. Dice di non averlo, e mi chiede cosa voglio. Un po’ in hindi e un po’ in inglese (perché sfido chiunque a sapere come si dica “ceretta” in hindi!) cerco di captare i prezzi dei vari trattamenti. Ci assestiamo su: ceretta completa 200 rupie (3 euro circa), 100 rupie per manicure e pedicure, ho deciso di viziarmi, oggi. Più che altro ho dimenticato di portare forbicine ecc.... in valigia. Con timore osservo l’estetista tirare giù da una mensola impolverata una latta dai bordi arrugginiti, che mette sul fuoco a scaldare. Le indico la parete azzurra sperando si tratti della stanza in cui si fanno cerette, massaggi e così via, ma proprio mentre la indico mi rendo conto che è solo un muro che conduce ad un cortile. No, no, siediti sulla sedia, mi intima. Una meravigliosa sedia da dentista nera, che neanche in Bielorussia erano così scalchignate! Comunque mi siedo, e guardo con terrore alla latta bollente di fronte a me. La mia aguzzina mi fa allungare le gambe e appoggiare i piedi su uno sgabello rivestito di carta da parati e mi dà un asciugamano (una asciugamani, come dicono la Mary e la Vale) per coprirmi le pudenda. Comincia a stendere la cera con una spatola di metallo, incurante del mio sguardo spaventato. Nel frattempo, noto che la tenda sulla porta non è tirata, quindi le chiedo di ovviare al problema, ma mi risponde che tanto fuori il vetro è nero (ammazza, ne sanno una più del diavolo queste estetiste autoctone!), infatti dopo poco ammiriamo l’espressione concentrata di un bambino che si scaccola fuori dalla nostra porta e si rimira poi soddisfatto.
Dopo neanche una decina di minuti che sono “sotto i ferri” entra una ragazza, che a quanto fare deve fare un lavoro molto veloce, per cui io vengo costretta a sedermi sull’altro scranno e aspettare, mentre l’estetista con un filo bianco che tiene tra i denti e poi attorciglia, definisce le sopracciglia alla cliente. Altro che pinzetta! Una volta finito, la ragazza esce e io torno a soffrire, ma anche questo dura poco, perché arriva un’altra cliente a cui deve fare le sopracciglia. Di fronte al mio imbarazzo mi rassicura con un “lady, lady!”. Sì bè, ci manca solo che entrino uomini, già mi vergogno così, figuriamoci!
Quindi mi tocca aspettare ancora e poi è di nuovo il mio turno. Quando le chiedo se può farmi l’inguine mi guarda inorridita manco fossi Jack lo Squartatore in persona, “NAHIN! NAHIN!” (no! No!). Era talmente scandalizzata che mi aspettavo mi buttasse addosso l’acqua del Gange per purificarmi (che poi, cioè… parliamone!)! Nel frattempo mi domando come farà a depilare la parte posteriore delle gambe, ma a quanto pare il problema non si pone. Non lo fa, e basta. Ecco l’efficienza indiana. Per lei è apposto così.
Vabbè, mi rifarò con la pedicure e la manicure. Nel frattempo, a quanto pare la manicure e la pedicure sono aumentate di prezzo. Quindi sono costretta a intavolare una discussione anche piuttosto lunga e animata (ché lo sapete che io sono pacifica e mai polemica) sui prezzi e su quanto era stato concordato in precedenza. Finalmente inclina la testa verso sinistra, chiude gli occhi e mormora “Tik he” (tipica espressione indiana per dire “va bene”). Mi passa sulle gambe e sui piedi una spugna imbevuta di acqua e sapone in un catino, e poi passa alle braccia e alle mani, che mi fa immergere nel suddetto catino. Mi lucida un po’ le unghie e poi afferra un tronchesino e comincia a tagliare. Malissimo, peraltro. Mi convinco che sistemerà tutto con la limetta (il cosiddetto “labor limae”, ahahah), invece no. Non è capace di usarla, e mi fa venire la pelle d’oca, così mi vedo costretta a prendere in mano la situazione e limarmi da sola le unghie. Mi aspetto che per lo meno mi faccia una buona pedicure, e le indico i miei piedini. Ma lei afferma che la pedicure l’ha già fatta. Cioè, dove? Quando? Com’è possibile che io non me ne sia accorta??? Le faccio il gesto delle forbici e lei mi spiega che no, percaritàd’Iddio, la pedicure qui si fa così, con la spugna, e non si tagliano le unghie (non parliamo poi dello smalto!), io le rispondo contrariata che per mettere i piedi in una bacinella d’acqua e sapone posso farlo benissimo anche a casa, ma non c’è niente da fare. Qui si fa così. Allora voglio almeno farmi una pulizia del viso come si deve, questa la farà coi fiocchi, dài. Ci si accorda su 450 rupie per tutto compresa pulizia viso e schiena.
Improvvisamente adocchio la mia borsa che langue sul pavimento con un’immensa macchia nera, di cui non si capisce l’origine. Poi mi accorgo che è il mio trattopen, che avevo dimenticato aperto dopo che il riksciòwalla l’aveva adoperato per scrivere il suo indirizzo. E così cerco di pulirmi le mani completamente nere, e cerco di bagnare la borsa con un po’ dell’acqua e sapone della bacinella di cui sopra.
Poi comincia la pulizia del viso, crema, massaggio, maschera… Poi mi sciacqua la faccia… E mi accorgo che l’acqua è sempre quella, in cui prima ho pucciato i piedi (e ve lo spiego quanto possano essere puliti i miei piedi qui, a furia di andare in giro a piedi nudi o in infradito, nelle stradine lerce e polverose e piene di mine), ma soprattutto in cui ho pulito la borsa sporca d’inchiostro!!!
Comincio a ridere da sola e mi dico che è inutile prendermela, sono in India, qui funziona così. Poi anche la figlia della mia carnefice, che ha assistito allo spettacolo, lo fa notare alla madre: io capto la parola kalam, penna, e le ripeto nella mia hindi maccheronica che l’acqua è sempre quella. Altro che “panta rei”, e Siddharta che non si bagna mai nella stessa acqua!
Ma fa niente, dài, koi bat nahin, come dicono qui. La situazione è talmente paradossale che non riesco a far altro che ridere e ridere e ridere ancora.
Per finire, apro la borsa per pagare e l’aguzzina adocchia due assorbenti: mi chiede cosa siano. Eh, come te lo dico in hindi??? Riesco a spiegarglielo in qualche modo e comincia l’inquisizione : “Ma dove li hai presi? Ah, in Italia sono così? Ma quanto durano???” Cavolo, mi pareva di essere di fronte a una spia della Lines indiana!!!
Poi ho scattato le foto, con somma gioia della boia e della figlia, e ho promesso che tornerò presto e gliele porterò. Ci tornerò di sicuro, più che per fare la pulizia del viso che, inchiostro a parte è stata bellissima, per farmi quattro risate, perché è stata davvero un’esperienza esilarante!
Sul risciò che mi riportava a casa ridevo da sola, mentre il riksciòwalla mi squadrava perplesso.
Salita su un risciò ho sentenziato con aria decisa e perentoria: 15 rupie! Quello c’ha provato a dire 20 rupie, ma niente da fare. Quando gli ho detto che parlo hindi ha cominciato a chiacchierare, a raccontarmi della sua famiglia, della sua casa. Mi rendo conto che trasportare fino a tre persone con due, tre bambini, su un carretto barcollante in mezzo al traffico è probabilmente tra i più mestieri più faticosi che esistano. Se non mi sbaglio ne “La città della gioia”, Dominique La Pierre narra la tristissima storia di un riksciòwalla. Uomini che dormono dentro il loro taxi a pedali, il cui unico tesoro è un lucchetto, in un ambiente in cui la competizione è terribile, e non si fa altro che denigrarsi a vicenda (quante volte mi è successo che mentre ero su un risciò ne passava un altro vuoto e il suo conducente mi diceva “Ah, ma lui è malato, non vedi? Ti farà cadere!”). Che rischiano la vita continuamente, vita che comunque -considerando l’inquinamento, il pericolo, la fatica, il dolore, i monsoni, i 50 gradi- non si prospetta granché lunga. Eppure qui gli autobus non esistono, e il risciò rimane il principale mezzo di trasporto (sebbene forse il più infame, per chi lo conduce). Mentre mi abbandonavo a queste riflessioni e ciondolavo la testa conciliante alle parole ormai incomprensibili del mio Caronte (e questo lo dico con il senno di poi, certo), un gruppo di bambini appena usciti da scuola ha circondato il risciò, salutandomi con le loro vocette squillanti. Io non ho esitato a tirar fuori la mia amata macchina fotografica, e loro, a quanto pare non aspettavano altro: si sono messi in posa e poi si rimiravano sullo schermo. Arrivata finalmente a destinazione, ho fatto una foto a Raju,il riksciòwalla, che mi ha lasciato il suo indirizzo di casa per mandargliela posta. Ovviamente non elettronica. Che tenero.
Entro nel “beauty parlour”, di fronte a me una stanza, anzi no: uno sgabuzzino con una parete azzurra. Qui è dove faranno i massaggi, mi dico. All’estetista dai tratti cinesi e dalla sari salmone chiedo il listino prezzi. Dice di non averlo, e mi chiede cosa voglio. Un po’ in hindi e un po’ in inglese (perché sfido chiunque a sapere come si dica “ceretta” in hindi!) cerco di captare i prezzi dei vari trattamenti. Ci assestiamo su: ceretta completa 200 rupie (3 euro circa), 100 rupie per manicure e pedicure, ho deciso di viziarmi, oggi. Più che altro ho dimenticato di portare forbicine ecc.... in valigia. Con timore osservo l’estetista tirare giù da una mensola impolverata una latta dai bordi arrugginiti, che mette sul fuoco a scaldare. Le indico la parete azzurra sperando si tratti della stanza in cui si fanno cerette, massaggi e così via, ma proprio mentre la indico mi rendo conto che è solo un muro che conduce ad un cortile. No, no, siediti sulla sedia, mi intima. Una meravigliosa sedia da dentista nera, che neanche in Bielorussia erano così scalchignate! Comunque mi siedo, e guardo con terrore alla latta bollente di fronte a me. La mia aguzzina mi fa allungare le gambe e appoggiare i piedi su uno sgabello rivestito di carta da parati e mi dà un asciugamano (una asciugamani, come dicono la Mary e la Vale) per coprirmi le pudenda. Comincia a stendere la cera con una spatola di metallo, incurante del mio sguardo spaventato. Nel frattempo, noto che la tenda sulla porta non è tirata, quindi le chiedo di ovviare al problema, ma mi risponde che tanto fuori il vetro è nero (ammazza, ne sanno una più del diavolo queste estetiste autoctone!), infatti dopo poco ammiriamo l’espressione concentrata di un bambino che si scaccola fuori dalla nostra porta e si rimira poi soddisfatto.
Dopo neanche una decina di minuti che sono “sotto i ferri” entra una ragazza, che a quanto fare deve fare un lavoro molto veloce, per cui io vengo costretta a sedermi sull’altro scranno e aspettare, mentre l’estetista con un filo bianco che tiene tra i denti e poi attorciglia, definisce le sopracciglia alla cliente. Altro che pinzetta! Una volta finito, la ragazza esce e io torno a soffrire, ma anche questo dura poco, perché arriva un’altra cliente a cui deve fare le sopracciglia. Di fronte al mio imbarazzo mi rassicura con un “lady, lady!”. Sì bè, ci manca solo che entrino uomini, già mi vergogno così, figuriamoci!
Quindi mi tocca aspettare ancora e poi è di nuovo il mio turno. Quando le chiedo se può farmi l’inguine mi guarda inorridita manco fossi Jack lo Squartatore in persona, “NAHIN! NAHIN!” (no! No!). Era talmente scandalizzata che mi aspettavo mi buttasse addosso l’acqua del Gange per purificarmi (che poi, cioè… parliamone!)! Nel frattempo mi domando come farà a depilare la parte posteriore delle gambe, ma a quanto pare il problema non si pone. Non lo fa, e basta. Ecco l’efficienza indiana. Per lei è apposto così.
Vabbè, mi rifarò con la pedicure e la manicure. Nel frattempo, a quanto pare la manicure e la pedicure sono aumentate di prezzo. Quindi sono costretta a intavolare una discussione anche piuttosto lunga e animata (ché lo sapete che io sono pacifica e mai polemica) sui prezzi e su quanto era stato concordato in precedenza. Finalmente inclina la testa verso sinistra, chiude gli occhi e mormora “Tik he” (tipica espressione indiana per dire “va bene”). Mi passa sulle gambe e sui piedi una spugna imbevuta di acqua e sapone in un catino, e poi passa alle braccia e alle mani, che mi fa immergere nel suddetto catino. Mi lucida un po’ le unghie e poi afferra un tronchesino e comincia a tagliare. Malissimo, peraltro. Mi convinco che sistemerà tutto con la limetta (il cosiddetto “labor limae”, ahahah), invece no. Non è capace di usarla, e mi fa venire la pelle d’oca, così mi vedo costretta a prendere in mano la situazione e limarmi da sola le unghie. Mi aspetto che per lo meno mi faccia una buona pedicure, e le indico i miei piedini. Ma lei afferma che la pedicure l’ha già fatta. Cioè, dove? Quando? Com’è possibile che io non me ne sia accorta??? Le faccio il gesto delle forbici e lei mi spiega che no, percaritàd’Iddio, la pedicure qui si fa così, con la spugna, e non si tagliano le unghie (non parliamo poi dello smalto!), io le rispondo contrariata che per mettere i piedi in una bacinella d’acqua e sapone posso farlo benissimo anche a casa, ma non c’è niente da fare. Qui si fa così. Allora voglio almeno farmi una pulizia del viso come si deve, questa la farà coi fiocchi, dài. Ci si accorda su 450 rupie per tutto compresa pulizia viso e schiena.
Improvvisamente adocchio la mia borsa che langue sul pavimento con un’immensa macchia nera, di cui non si capisce l’origine. Poi mi accorgo che è il mio trattopen, che avevo dimenticato aperto dopo che il riksciòwalla l’aveva adoperato per scrivere il suo indirizzo. E così cerco di pulirmi le mani completamente nere, e cerco di bagnare la borsa con un po’ dell’acqua e sapone della bacinella di cui sopra.
Poi comincia la pulizia del viso, crema, massaggio, maschera… Poi mi sciacqua la faccia… E mi accorgo che l’acqua è sempre quella, in cui prima ho pucciato i piedi (e ve lo spiego quanto possano essere puliti i miei piedi qui, a furia di andare in giro a piedi nudi o in infradito, nelle stradine lerce e polverose e piene di mine), ma soprattutto in cui ho pulito la borsa sporca d’inchiostro!!!
Comincio a ridere da sola e mi dico che è inutile prendermela, sono in India, qui funziona così. Poi anche la figlia della mia carnefice, che ha assistito allo spettacolo, lo fa notare alla madre: io capto la parola kalam, penna, e le ripeto nella mia hindi maccheronica che l’acqua è sempre quella. Altro che “panta rei”, e Siddharta che non si bagna mai nella stessa acqua!
Ma fa niente, dài, koi bat nahin, come dicono qui. La situazione è talmente paradossale che non riesco a far altro che ridere e ridere e ridere ancora.
Per finire, apro la borsa per pagare e l’aguzzina adocchia due assorbenti: mi chiede cosa siano. Eh, come te lo dico in hindi??? Riesco a spiegarglielo in qualche modo e comincia l’inquisizione : “Ma dove li hai presi? Ah, in Italia sono così? Ma quanto durano???” Cavolo, mi pareva di essere di fronte a una spia della Lines indiana!!!
Poi ho scattato le foto, con somma gioia della boia e della figlia, e ho promesso che tornerò presto e gliele porterò. Ci tornerò di sicuro, più che per fare la pulizia del viso che, inchiostro a parte è stata bellissima, per farmi quattro risate, perché è stata davvero un’esperienza esilarante!
Sul risciò che mi riportava a casa ridevo da sola, mentre il riksciòwalla mi squadrava perplesso.
Per oggi è tutto. E direi che è addirittura troppo!
Sò!
1 commento:
mitica sò!
ti ho messa tra i miei amici su highwayman81.blogspot.com!
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