Alla stazione di Amritsar noi cinque dolci donzelle italiane eravamo le uniche straniere all’orizzonte, ben cariche di borse e borsoni, mentre ci chiamavano da tutte le parti, ma noi volevamo solo il nostro pick-up, un ragazzo che, come promesso, ci aspettava davanti a una riproduzione del Tempio d’Oro con un cartello in mano: “CJ International”, il nome del nostro albergo. Abbiamo attraversato la città per giungere finalmente a destinazione, dopo mezzanotte. Il nostro hotel era davvero proprio di fronte al Tempio d’Oro (che non è -solo un bar dove si va a far l’happy hour con ESN, ma soprattutto il tempio più sacro della comunità sikh… Per info vi rimando a wiki, che insomma, ne sa: http://it.wikipedia.org/wiki/Sikhismo & http://it.wikipedia.org/wiki/Tempio_d%27Oro ), il quale, per Divali, la festa delle luci, di cui ho già parlato diffusamente l’anno scorso (come direbbe la prof. Dolcini “Andarselo a vedere!” http://varanasindiario.blogspot.com/2008/11/28-ottobre-divali.html ) era illuminato a festa e le luminarie si riflettevano nella piscina interna al tempio. Una vista talmente incantevole che ci siamo commosse tutte (non solo io, ecco!). Dopo aver mangiato toast e bevuto chai ci siamo messe finalmente a nanna.
La mattina successiva ci siamo preparate e infighettate per bene per visitare il Tempio. Definirlo stupendo è forse riduttivo. Per entrare bisogna lasciare le scarpe nelle scarpiere, si pucciano i piedini in una piscinetta, ci si copre la testa, e poi finalmente si entra in punta di piedi in un mondo incantato di marmo bianco, illuminato dalla luce del sole del mattino. Nella piscina interna i devoti (maschi) si bagnano, vestiti solo dei loro mutandoni sikh e del turbante. Questa catarsi rituale che si ripete da secoli è così emozionante... Un senso di pace e tranquillità e serenità pervade il Tempio d’Oro, se non fosse per i soliti indiani rompiballe che cercano di scattarci foto di sgamo e che vengono rimproverati dalle guardie nei loro costumi tradizionali blu e zafferano, che in genere sono più solerti di questi:
Ci siamo poi messe in fila per entrare al gurudwar (il tempio sikh) vero e proprio, ovvero il cuore del sikhismo: un edificio completamente rivestito d’oro, per entrare nel quale abbiamo dovuto fare una fila di un’ora sotto il sole cocente di mezzogiorno (perché il tempismo è il nostro mestiere), ma ne è valsa decisamente la pena: completamente rivestito di marmo e di piastrelle colorate, in sottofondo le voci dei musicisti, accompagnate dal suono melodioso dell’harmonium, del sitar e della tabla, i mormorii e i canti dei fedeli, le chiacchiere di qualche turista irriverente…
Davvero emozionante.
Una volta uscita dal gurudvar, io e l’Ottavia siamo andate a riprendere le scarpe. Che non si trovavano. Paura e panico ad Amritsar. Al ché siamo entrate a cercarle, e sembrava di essere in un impianto di stagionatura di pecorino, da cui però siamo uscite vittoriose, dopo una mezz’ora di ricerche.
Dopo aver fatto le brave ragazze S, come dice la Lucia, dove “S” sta per sikh, siamo andate al Jallianwala Bagh, il giardino dove nel 1919 centinaia di uomini, donne e bambini sono stati fucilati dai britannici. Ma siamo dovute scappare in fretta, inseguite da orde di indiani armati di macchine fotografiche analogiche (quelle che fino a un po’ di tempo fa si trovavano nel fustino del Dash, per dire) e cellulari che scattavano all’impazzata… famiglie che volevano stringerci la mano, sapere chi fossimo e così via… Eravamo braccate, ma siamo riuscite a liberarci.
alla volta del Mata mandir, il tempio della Madre, che, secondo la tradizione, dovrebbe aiutare le donne ad avere figli. Più che in un tempio, a noi sembrava di essere alle giostre, tra casa degli specchi, cuniculi da casa degli orrori, rigagnoli stagnanti da guadare… Per poi arrivare finalmente davanti alla statua della santa: ecco che abbiamo capito perché è venerata dalle donne. È talmente brutta che le donne, guardandola, si consolano e si rincuorano: “se ce l’ha fatta ‘sta cessona, a sposarsi ed aver figli, ce la possiamo fare tutte!”.
Infine siamo tornate al Tempio d’Oro per ammirarlo in versione notturna, illuminato dalle luminarie di Divali e dalle candele, che si riflettevano sul bianco del marmo e nell’acqua. Così anche il pomeriggio di Divali è trascorso, ed eccoci pronte a tornare in hotel per ammirare i
fuochi d’artificio delle sette. Ci siamo piazzate in pole position in terrazza con il naso all’insù… Lo spettacolo era favoloso, sembrava di essere nel cartone animato di Aladdin, quando Jasmine è sul terrazzo e Aladdin la prende per mano e la invita a salire sul tappeto volante cantandole “Ora vieni con me verso un mondo d’incanto, principessa è tanto che il tuo cuore aspetta un sì” http://www.youtube.com/watch?v=B2xsbrIqnX0, praticamente una delle mie scene preferite di Disney… Davvero incantevole, emozionante, commovente.
I fuochi d’artificio sono durati tantissimo, poi ci siamo vestite a festa e siamo andate alla ricerca dei “matching churi”, i braccialetti da abbinare. Le altre fanciulle hanno comprato le scarpe, e, tra una cosa e l’altra, s’è “fatta una certa” e il ristorante panjabi dove volevamo andare a mangiare ha chiuso. Così abbiamo deciso di concederci, dopo quella lunga giornata da turiste fai-da-te, una cena luculliana, per cui abbiamo speso, in cinque, 1000 rupie. Tipo 15 euro. La serata è finita nel delirio più totale, complici stanchezza, rincoglionimento ed entusiasmo per la giornata trascorsa, faticosa ma splendida.
Il 18 era il nostro ultimo giorno ad Amritsar, che la sottoscritta ha passato a fare interviste per il progetto, mentre le altre didi compravano altre scarpine panjabi… GRRRR!!!
In compenso, con la scusa dell’intervista, sono riuscita a fare la foto al receptionist figo dell’albergo, e sono stata così osannata dalle altre fanciulle. Effettivamente, questi ragazzi turbantati c’hanno il loro fascino, e da quando sono in India devo dire che la concentrazione di ragazzi più belli, o se non altro decenti rispetto alla -assai bassa- media indiana, l’ho trovata proprio in Panjab, il granaio dell’India. E per “granaio” non mi riferisco certo al locale di Settimo.
Nel primo pomeriggio siamo saliti in taxi alla volta di Moga, l’allegro paesello di Gurvir, l’amico di Lucia, che ci ha invitate tutte al matrimonio di sua sorella, dandoci l’opportunità di assistere a un matrimonio panjabi, considerato come il re dei matrimoni indiani, per la sua vitalità e per i suoi balli tradizionali, in particolare il cosiddetto bhangra, che è tipo questo: http://www.youtube.com/watch?v=ZW7sAMTLDas .
Dopo tre ore di viaggio, trascorse cantando e ridendo e facendo video, e guardando fuori dal finestrino le campagne rigogliose e le risaie, i gurudwar, i bus affollatissimi di gente comodamente (?) seduta sul tetto che ci salutava… Finalmente siamo arrivati a Moga, conosciuta come la città della Nestlé. Dopo un pranzetto nel nostro hotel figo, sono venuti a trovarci Gurvir, con sorella minore e cognato, che poi ci hanno portato in macchina (otto in una cinque posti, ovviamente) a fare shopping in un centro commerciale, dove io e l’Ottavia ci siamo contese una dupatta :) Ma ho vinto io perché, come dice lei: “Lo shopping è come lo sport: bisogna saper perdere!”. Volevamo farci fare il mehendi (l’henné), ma ormai era troppo tardi, e, mentre eravamo in macchina, Gurvir ci ha annunciato raggiante che eravamo invitate alla festa di pre-matrimonio con tutta la famiglia. Noi eravamo stra-cotte, vestite alla bella e meglio, ma non potevamo certo rifiutarci! Così, dopo le prime reticenze, siamo arrivate a casa della nonna di Gurvir, dove c’era almeno una cinquantina di persone agghindate a festa che ballava e mangiava… Noi ci siamo
unite al gruppo di fanciulle danzanti e abbiamo cominciato a copiare tutto quello che facevano loro. È stato davvero divertentissimo, tranne quando è arrivata una signora grassa e bruttissima, dalle fattezze di un satiro, che ha cominciato a strattonarmi pretendendo che ballassi con lei. Ovviamente -ovviamente per gli indiani, non certo per noi!- donne e uomini ballavano separati, percaritàdiddio, non vorrei mai che si toccassero accidentalmente, eh! In ogni caso è stato molto divertente e, proprio perché non c’erano maschi rompiballe attorno, rilassante. Stanche morte, siamo andate a mangiare, e poi la sorella maggiore di Gurvir ci ha fatto il mehendi sulle mani... Tranne a me, ché me l’ha fatto la Lucia. Abbiamo scoperto praticamente alla fine della serata chi era la sposa: era talmente giovane che non pensavamo neanche lontanamente che potesse essere lei. Ventun anni, ancora una bambina!
È stata davvero una bellissima serata, ci siamo sentite davvero parte della famiglia e sono stati tutti molto gentili con noi! Poi ci hanno riaccompagnate in hotel e siamo crollate immediatamente, eravamo proprio stanche! E poi… Dovevamo riposarci, mica potevamo presentarci con le samsonite sotto agli occhi, proprio noi, le VIP del matrimonio!
Ed è arrivato così il giorno tanto atteso, il momento di sfoggiare i nostri salwar kamiz più belli, detti anche punjabi dress (e ho capito finalmente perché si chiamano così, visto che il Panjab è uno stato a maggioranza sikh, e le donne sikh non indossano la sari, bensì il punjabi dress, appunto), i nostri churi e gioielli vari.
Dovevamo essere alle 10.30 al resort dove si teneva il ricevimento ma quelli dell’albergo si erano dimenticati di chiamare il taxi, e, quando gliel’abbiamo fatto notare, ci hanno chiesto 1000 rupie per un quarto d’ora di strada. Così abbiamo recuperato un taxi per strada, che, per 250 rupie (che comunque eran già tante) ci ha portate a destinazione. Il resort era un salone enorme, con forse un migliaio di sedie, e i camerieri passavano avanti e indietro a portare chai, caffè latte, succhi di frutta, bibite e cibo, tanto cibo. E c’era anche il self service, e persino il banchetto dei succhi e della frutta fresca, e mi pare superfluo aggiungere che nessuna di noi s’è tirata indietro.
In realtà il ricevimento era solo per gli ospiti. Lo sposo è arrivato più tardi, preceduto dalla banda, come al solito vestita in maniera assolutamente improbabile, accompagnato da amici e parenti maschi, e ha cercato di entrare nel salone. Ma c’eravamo noi donne a impedirglielo, con un nastro rosso davanti alla porta, chiedendo loro soldi. Così è stata intavolata un’interessante contrattazione -manco il giorno del matrimonio gli indiani riescono a non contrattare, ahahah!- e i baldi giovani sono riusciti ad entrare solo dopo aver sganciato più di un migliaio di rupie. Dopo l’entrata trionfale dello sposo, ci siamo spostate nella casa della sposa, la quale sembrava un’altra persona, vestita con un lehenga (completo top, gonna e dupatta) bordeaux (che, insieme al rosso, è il colore tradizionale della sposa) completamente lavorato con decorazioni dorate, argentate e verdi. Era davvero bellissima, e tanto tenera…
Subito dopo siamo finalmente andati nel tempio, proprio di fianco alla casa, per la cerimonia. Della cerimonia non ho capito niente, visto che era in sanscrito (credo), in compenso ho sofferto terribilmente perché, mentre ero seduta tranquilla per terra, un bellimbusto ha avuto la brillante idea di schiacciarmi il piede nudo. E di schiacciarmi l’anello da piede, che, sul davanti mi premeva dolorosamentissimamente sul dito, e dietro mi faceva il pizzicotto. Non so come ho fatto a non urlare, e non piangere, faceva talmente male che mi prendeva i nervi e non potevo far nulla, neanche toglierlo, perché era incastrato. Ho dovuto soffrire per un quarto d’ora prima di uscire zoppicando, e per fortuna c’ha pensato l’Ottavia a togliermelo, perché io non riuscivo proprio! Mentre tutti assistevano alla cerimonia e io cercavo di sopportare stoicamente, le parenti della sposa erano fuori dal tempio a nascondere le scarpe per poter recuperare altri soldi dai parenti dello sposo.
Finita la cerimonia, disincastrato l’anello e ritrovate le scarpe, siamo tornati tutti al luogo del ricevimento, gli sposi in una macchina bianca, regalo dei suoceri al neo-genero, decorata con boccioli di rosa, attaccati con lo scotch. Perché il kitschume indiano non si può certo nascondere!
Ancora cibo, al banchetto, e persino alcolici. Cosa non avremmo dato per una birra… Ma le donne mica possono bere… E ci siamo dovute trattenere, a forza. Eppure ci avrebbe fatto bene un goccetto, per sopportare tutti i mocciosi che c’inseguivano per tutto il resort e tutti i ragazzi che volevano fare foto con noi. Ma c’era la nostra guardia del corpo, Gurvir, che controllava tutto. Gli uomini non avevano proibizioni riguardo all’alcool, e infatti dopo un po’ si sono lanciati nelle danze, mentre c’era un gruppo di “professionisti” sul palco che ballava e cantava in playback.
Verso la fine è cominciata la processione per la foto con gli sposi, seduti su un divano posto su un palchetto tutto addobbato e pieno di fiori finti, che agli indiani piacciono tanto.
E, dopo le foto di rito, tutti fuori, a salutare gli sposi. Questo è il momento più triste del matrimonio, il momento del distacco. Infatti la sposa lascia la sua casa per trasferirsi nella casa del marito, insieme alla sua famiglia, ed è sempre un terno al lotto, visto che non sa mai cosa l’aspetta.
Anche questo era un matrimonio combinato, come la maggior parte dei matrimoni indiani. Certo, ogni tanto qualche matrimonio d’amore c’è, ma in genere si affidano alla scelta dei genitori, che di sicuro “sanno cos’è meglio per loro”. Il matrimonio combinato non è quindi da considerare come un ripiego, né una costrizione (ovviamente ci sono le eccezioni, ma in genere è così) per i giovani, forse perché non hanno conosciuto altre realtà, o forse semplicemente perché funziona così, da secoli, e in fondo in fondo non va poi così male. S’impara a volersi bene, a volte ad amarsi, e ci si sostiene a vicenda per tutta la vita, visto che il divorzio non è visto di buon occhio dalla società indiana (sebbene i numeri stiano aumentando molto, soprattutto nell’India urbana). Ma questo non è l’unico motivo per cui ci sono così pochi divorzi: le coppie davvero cercano di restare insieme, si sacrificano per il bene dei figli e provano a restare uniti. Quello che forse in Occidente verrebbe definito “ipocrisia” qui si chiama “spirito di sacrificio”. E forse, un po’ di spirito di sacrificio farebbe bene anche a noi.
Abbiamo salutato tutti, con un po’ di magone, e siamo tornate all’albergo, dove mi aspettava una bella sorpresa: il conto della lavanderia raddoppiato rispetto al giorno prima. Il manager dell’hotel ha sparato una scusa dopo l’altra, facendomi arrabbiare tantissimo, e obbligandomi a sclerare per l’ennesima volta in hindi. Ovviamente l’ho vinta io, ma è davvero frustrante dover ogni volta incazzarsi per farsi rispettare!
La mattina dopo le ragazze sono partite presto, mentre io avevo il treno alle 18.45 e quindi ho pensato di fare un giro per la città e poi partire alle 15 con calma.
Ma la sfiga era in agguato, e ho cominciato a stare malissimo, tra squarao e vomito, e ho chiesto di poter rimanere oltre il mezzogiorno, ora del check-out… Dopo il litigio ero abbastanza timorosa, ma, come volevasi dimostrare, proprio per quello sono stati gentilissimi e si sono prodigati per me. Soprattutto perché, alle 15 non mi reggevo in piedi e avevo paura di non riuscire a sopportare 22 ore di treno, da sola, e ho dovuto rimandare indietro il tassista che era venuto a prendermi. Uno dei manager mi diceva di prendere delle medicine e di partire, ma io non mi sentivo sicura, proprio per niente, e ho pensato che sarei partita il giorno dopo perché stavo davvero troppo, troppo male. Nel frattempo ho chiesto di poter usare internet per guardare i treni del giorno dopo, ma non ce n’erano. E c’ho impiegato un due ore buone per fare questa ricerca, dopo di che mi sono resa conto che stavo molto meglio e che ero in grado di intraprendere il viaggio di ritorno verso Varanasi. Così ho richiamato il tassista, ho chiamato Gurvir per avvertirlo della mia decisione, rassicurandolo, perché era preoccupatissimo, e sono partita alla volta della stazione di Ludhiana, a un’ora e mezza di distanza (40 km qui sembrano un abisso), ovviamente in ritardo, perché mica posso star tranquilla!
Sono arrivata in tempo, trafelata, ma l’ora e mezza canonica di attesa era d’obbligo. Una volta salita sul treno ho dormito, dormito, dormito. E quando mi son svegliata mi sono accorta che mi avevano rubato i biscotti! :D E il 21 era il giorno della laurea della Mary, che io mi son persa… Ed ero così triste che mi sono rintanata sotto la mia copertina rubata alla business class della Swiss a singhiozzare un po’ in pace.
Finché, finalmente sono arrivata a Varanasi, ed ecco il cartello che mi attendeva:
Praticamente un invito allo shopping selvaggio! :D
Alla prossima,
Sò! :)
2 commenti:
ciao so, ho letto il tuo diario di bordo e come al solito riesci a far vivere chi ti legge in un momdo avventuroso. Ti dirò , io avrei descritto un po di piu la cerimonia delmatrimonio , perchè mi è sembrato veremente bello trovarsi in una cerimonia del genere- mica ti ci puoi troavre tutti i giorni.Immagino le due famiglie degli sposi , le emozioni dei genitori. Gli sposi sono due personaggi bellissimi , mancano fossimo a una Mille e una notte.Anche la preparazione degli sposi. gli sposi che arrivano, i preparativi di ingresso alla cerimonia, il rito, lo scambio dei baci e degli anelli( ci saranno baci e anelli?) e poi l'uscita il viaggio su quella macchina tutta incerottata . Poi passo al viaggiio ad Amisitar ( quel posto lì tutto d'oro) bacioni pa
E poi quel posto splendido con i palazzi tutti ricoperti in oro ( in Italia li avrebbero smontati la notte dopo averli ricoperti in oro, proprio come fanno con le scossaline e i cavi in rame , che certamente ha un buon valore ma mai come l'oro). mi piacerebbe leggere come E COSA fanno gli indiani (d'iNDIA) in quei palazzi splendidi che come mi pare di avere capito è come Città del Vaticano e come la Mecca per i musulmani.Certo che le foto del più bel servizio fottografico di un matrimonio in Italia fa certamente brutta figura vedendo le foto degli sposi e dei suoi parenti bambini compresi.Ri bacioni pa
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