Mi sento “leggermente” osservata… sarà che sono tra le pochissime donne sulla carrozza, di certo l’unica straniera. Che stress. Un po’ di fifa c’è, come negarlo? Però mi dico che a quest’ora domani sarà a Varanasi. Non avrei mai pensato che mi sarebbe mancata così tanto, quando sono arrivata.
Voglio dire, l’accoglienza riservatami da Varanasi non era stata esattamente delle migliori, però, a differenza di Parigi, Cracovia, e tante altre città per così dire ‘turistiche’, la sua bellezza non corrisponde a nessuno dei nostri canoni estetici, e lo so che l’ho già detto e scritto almeno un migliaio di volte. La sua è una bellezza interiore, mistica, emotiva, ‘cardiaca’, se posso esprimere così la contrapposizione con la bellezza ‘cerebrale’.
Per carità, lungi da me intavolare un discorso filosofico sulla bellezza: non ne ho i mezzi, la conoscenza, le capacità. E sono pur sempre seduta a gambe incrociate nel vagone letto, circondata da curiosi che cercano di carpire il minimo indizio su ciò che sto scrivendo! Posso solo parlare e scrivere di ciò che sento, e sperare di essere compresa, almeno un po’. E sperare che il mio solito ciarlare di aria fritta possa avvicinarmi un po’ a voi che siete lontani e che magari ogni tanto -ogni tanto!- sentite la mancanza del mio blablablabla! :D
Dicevo. La bellezza di Varanasi si scopre lentamente, dolcemente, ma implacabilmente: un giorno ti accorgi che questa città, che in fondo è un paesone, ti è entrata nel cuore, per sempre.
È una bellezza che risiede negli sguardi intensi, nei sorrisi di speranza di chi, malato, vecchio, vi è giunto dopo un lungo pellegrinaggio -proprio qui, nella città più antica del mondo, la più sacra per gli hindu, la città di Shiva- e può, finalmente, morire felice, perché le anime degli hindu che muoiono qui concludono il ciclo delle vite e delle (ri)nascite. Questa bellezza (sì, lo so, sto ripetendo troppe volte ‘bellezza’, dà fastidio anche a me essere ridondante ma se vi fa sentire meglio lo scrivo in altre lingue…) è contagiosa, sapete? E lo è solo per chi ha la fortuna di sentirla, viverla, respirarla. E non bastano certo un paio di giorni.
Quante volte mi son sentita dire che “Varanasi è brutta, sporca, e la gente ci va a morire”? Tutto vero, eh, però… Riflettiamoci. Brutta? I ghat (le gradinate che portano alla Gangaji, il sacro Gange, che in hindi è femminile, come quasi tutti i fiumi) e i palazzi e i tempi, e le sari messe lungo i ghat ad asciugare, il sole che sorge dalla Ganga, gli aquiloni che solcano il cielo, le scimmie che scorrazzano sui tetti, i bambini che giocano scalzi e ridono a crepapelle. Tutto questo è tutt’altro che brutto, ve lo assicuro. Sporca? Uhm… Eh sì, sporca. Sporca da morire. In questo è indifendibile.
E poi… il fatto che molta gente decida di lasciarsi morire qui non è semplice disperazione, o rassegnazione passiva. Secondo i testi classici hindu, in particolare ‘Le leggi di Manu’, l’uomo primordiale, la vita dell’hindu -nello specifico, uomo e appartenente alle prime caste- è suddivisa in quattro fasi, dette ashrama:
• Brahmacarya, la vita da studente
• Grihastha, la vita familiare
• Vanaprastha, la vita nei boschi, quando ormai i figli sono sistemati e ci si ritira dalla vita mondana
• Samnyasa, la rinuncia ai beni terreni per dedicarsi interamente a Dio. Colui che intraprende questa strada, il samnyasin, parte per un pellegrinaggio che durerà fino alla fine dei suoi giorni, vivendo della carità altrui.
Ora, è chiaro che al giorno d’oggi questa scansione viene assai raramente rispettata, ma di samnyasin o di semplici pellegrini a Varanasi se ne vedono a milioni, e tutta questa tiritera è utile per fare comprendere come la morte in questa città sia semplicemente la fine sì, ma la fine addirittura auspicabile di quel cerchio quasi eterno ed infinito che è il samsara. La morte in questa città corrisponde al moksha, la liberazione del ciclo delle vite e delle morti, e be’, mica pizza e fichi, direi!
E i ghat di cremazione? Obietterà qualcuno (o forse no, ormai me le canto e me le suono da sola!). Il principale è il Manikarnika (che è anche il vero nome della Rani di Jhansi, che è nata proprio in questa città!), dove ci sarà sicuramente qualche indiano che si offrirà di raccontarvi le modalità di cremazione e la rava e la fava in cambio di un cospicuo bakshish (mancia), e vi permetterà anche di fare delle belle foto da mostrare ai vostri amici e parenti una volta a casa. Però. È davvero così necessario fare delle foto a dei corpi che ardono? In Italia faremmo delle foto a un funerale? Cioè, io no. È per questo che non ci tengo neanche particolarmente ad andarci, ecco. Che poi qui i morti vengano arsi e poi buttati nella Ganga -una doppia catarsi, insomma: prima il fuoco e poi l’acqua, l’acqua santa, poi!- è semplicemente il riflesso di una cultura totalmente diversa dalla nostra. Per esempio, i musulmani inumano i propri morti, anche qui in India, così come avviene per i bambini hindu e per i sadhu, i santoni.
Oddio, i ragazzi vicino a me hanno preso un daal di ceci con cipolle fresche sopra e una spruzzata di limone. Un’alitata e mi stendono peggio di Mike Tyson!
Intanto passiamo campi di grano sconfinati e distese verdi -come direbbe l’Alessia :D - puntellate qua e là dal bianco delle vacche, dal marrone dei carretti e dai colori vivaci delle sari, e interrotte di tanto in tanto dal grigio del fiume. Non vi aspetterete mica che l’acqua sia limpida e cristallina, eh?! Ecco, guarda! Si vedono delle capanne di fieno… Qualche chilometro più in là delle tende… E poi le capanne di fango… E ancora, case in mattoni grezzi. Le palme che si stagliano verso il cielo, i bufali che pascolano tranquilli, le sari stese ad asciugare. Sembra quasi di essere in un romanzo salgariano… Senza tigri, per fortuna! Questa è l’India rurale, l’India dei villaggi, l’India che si aggrappa con forza alle proprie tradizioni con mani callose e segnate dalla fatica. Quell’India che Gandhi ha visitato dopo aver passato molti anni in Sudafrica, per conoscerla e farsi conoscere, e per portare il suo messaggio di ahimsa, che è molto più della semplice “non-violenza”: è la negazione (rappresentata dal prefisso privativo a-) di himsa, il desiderio di nuocere. E il merito di Gandhi consiste nell’aver trasformato un concetto definito per negazione, in uno molto più semplice, chiaro, immediato: ‘amore’. Non indifferenza. Amore. Cosa può essere, altrimenti, il ‘non-desiderio di nuocere’?
L’amore, che trascende tutte le religioni, culture, nazionalità, etnie, e le unisce nelle loro diversità, nella loro ricchezza.
Oddio, come sono sdolcinata. Sarà che i viaggi in treno hanno sempre quel non-so-che di malinconico, nostalgico, romantico, soprattutto se attraversi paesaggi come questi, e hai in mano un quaderno e una penna per far passare 17 ore di viaggio, mentre i vicini ti guardano incuriositi e stupiti (e direi che funziona, visto che tre ore e mezza sono quasi volate!).
O forse è colpa di questo succo di frutta dolcissimo al mango.
Voglio dire, l’accoglienza riservatami da Varanasi non era stata esattamente delle migliori, però, a differenza di Parigi, Cracovia, e tante altre città per così dire ‘turistiche’, la sua bellezza non corrisponde a nessuno dei nostri canoni estetici, e lo so che l’ho già detto e scritto almeno un migliaio di volte. La sua è una bellezza interiore, mistica, emotiva, ‘cardiaca’, se posso esprimere così la contrapposizione con la bellezza ‘cerebrale’.
Per carità, lungi da me intavolare un discorso filosofico sulla bellezza: non ne ho i mezzi, la conoscenza, le capacità. E sono pur sempre seduta a gambe incrociate nel vagone letto, circondata da curiosi che cercano di carpire il minimo indizio su ciò che sto scrivendo! Posso solo parlare e scrivere di ciò che sento, e sperare di essere compresa, almeno un po’. E sperare che il mio solito ciarlare di aria fritta possa avvicinarmi un po’ a voi che siete lontani e che magari ogni tanto -ogni tanto!- sentite la mancanza del mio blablablabla! :D
Dicevo. La bellezza di Varanasi si scopre lentamente, dolcemente, ma implacabilmente: un giorno ti accorgi che questa città, che in fondo è un paesone, ti è entrata nel cuore, per sempre.
È una bellezza che risiede negli sguardi intensi, nei sorrisi di speranza di chi, malato, vecchio, vi è giunto dopo un lungo pellegrinaggio -proprio qui, nella città più antica del mondo, la più sacra per gli hindu, la città di Shiva- e può, finalmente, morire felice, perché le anime degli hindu che muoiono qui concludono il ciclo delle vite e delle (ri)nascite. Questa bellezza (sì, lo so, sto ripetendo troppe volte ‘bellezza’, dà fastidio anche a me essere ridondante ma se vi fa sentire meglio lo scrivo in altre lingue…) è contagiosa, sapete? E lo è solo per chi ha la fortuna di sentirla, viverla, respirarla. E non bastano certo un paio di giorni.
Quante volte mi son sentita dire che “Varanasi è brutta, sporca, e la gente ci va a morire”? Tutto vero, eh, però… Riflettiamoci. Brutta? I ghat (le gradinate che portano alla Gangaji, il sacro Gange, che in hindi è femminile, come quasi tutti i fiumi) e i palazzi e i tempi, e le sari messe lungo i ghat ad asciugare, il sole che sorge dalla Ganga, gli aquiloni che solcano il cielo, le scimmie che scorrazzano sui tetti, i bambini che giocano scalzi e ridono a crepapelle. Tutto questo è tutt’altro che brutto, ve lo assicuro. Sporca? Uhm… Eh sì, sporca. Sporca da morire. In questo è indifendibile.
E poi… il fatto che molta gente decida di lasciarsi morire qui non è semplice disperazione, o rassegnazione passiva. Secondo i testi classici hindu, in particolare ‘Le leggi di Manu’, l’uomo primordiale, la vita dell’hindu -nello specifico, uomo e appartenente alle prime caste- è suddivisa in quattro fasi, dette ashrama:
• Brahmacarya, la vita da studente
• Grihastha, la vita familiare
• Vanaprastha, la vita nei boschi, quando ormai i figli sono sistemati e ci si ritira dalla vita mondana
• Samnyasa, la rinuncia ai beni terreni per dedicarsi interamente a Dio. Colui che intraprende questa strada, il samnyasin, parte per un pellegrinaggio che durerà fino alla fine dei suoi giorni, vivendo della carità altrui.
Ora, è chiaro che al giorno d’oggi questa scansione viene assai raramente rispettata, ma di samnyasin o di semplici pellegrini a Varanasi se ne vedono a milioni, e tutta questa tiritera è utile per fare comprendere come la morte in questa città sia semplicemente la fine sì, ma la fine addirittura auspicabile di quel cerchio quasi eterno ed infinito che è il samsara. La morte in questa città corrisponde al moksha, la liberazione del ciclo delle vite e delle morti, e be’, mica pizza e fichi, direi!
E i ghat di cremazione? Obietterà qualcuno (o forse no, ormai me le canto e me le suono da sola!). Il principale è il Manikarnika (che è anche il vero nome della Rani di Jhansi, che è nata proprio in questa città!), dove ci sarà sicuramente qualche indiano che si offrirà di raccontarvi le modalità di cremazione e la rava e la fava in cambio di un cospicuo bakshish (mancia), e vi permetterà anche di fare delle belle foto da mostrare ai vostri amici e parenti una volta a casa. Però. È davvero così necessario fare delle foto a dei corpi che ardono? In Italia faremmo delle foto a un funerale? Cioè, io no. È per questo che non ci tengo neanche particolarmente ad andarci, ecco. Che poi qui i morti vengano arsi e poi buttati nella Ganga -una doppia catarsi, insomma: prima il fuoco e poi l’acqua, l’acqua santa, poi!- è semplicemente il riflesso di una cultura totalmente diversa dalla nostra. Per esempio, i musulmani inumano i propri morti, anche qui in India, così come avviene per i bambini hindu e per i sadhu, i santoni.
Oddio, i ragazzi vicino a me hanno preso un daal di ceci con cipolle fresche sopra e una spruzzata di limone. Un’alitata e mi stendono peggio di Mike Tyson!
Intanto passiamo campi di grano sconfinati e distese verdi -come direbbe l’Alessia :D - puntellate qua e là dal bianco delle vacche, dal marrone dei carretti e dai colori vivaci delle sari, e interrotte di tanto in tanto dal grigio del fiume. Non vi aspetterete mica che l’acqua sia limpida e cristallina, eh?! Ecco, guarda! Si vedono delle capanne di fieno… Qualche chilometro più in là delle tende… E poi le capanne di fango… E ancora, case in mattoni grezzi. Le palme che si stagliano verso il cielo, i bufali che pascolano tranquilli, le sari stese ad asciugare. Sembra quasi di essere in un romanzo salgariano… Senza tigri, per fortuna! Questa è l’India rurale, l’India dei villaggi, l’India che si aggrappa con forza alle proprie tradizioni con mani callose e segnate dalla fatica. Quell’India che Gandhi ha visitato dopo aver passato molti anni in Sudafrica, per conoscerla e farsi conoscere, e per portare il suo messaggio di ahimsa, che è molto più della semplice “non-violenza”: è la negazione (rappresentata dal prefisso privativo a-) di himsa, il desiderio di nuocere. E il merito di Gandhi consiste nell’aver trasformato un concetto definito per negazione, in uno molto più semplice, chiaro, immediato: ‘amore’. Non indifferenza. Amore. Cosa può essere, altrimenti, il ‘non-desiderio di nuocere’?
L’amore, che trascende tutte le religioni, culture, nazionalità, etnie, e le unisce nelle loro diversità, nella loro ricchezza.
Oddio, come sono sdolcinata. Sarà che i viaggi in treno hanno sempre quel non-so-che di malinconico, nostalgico, romantico, soprattutto se attraversi paesaggi come questi, e hai in mano un quaderno e una penna per far passare 17 ore di viaggio, mentre i vicini ti guardano incuriositi e stupiti (e direi che funziona, visto che tre ore e mezza sono quasi volate!).
O forse è colpa di questo succo di frutta dolcissimo al mango.
Sò!
4 commenti:
ciao so,
racconta com'è quel viaggio sul treno.
Io immagino i treni in india come quelli che si vedono nei film, ma non quelli di Bollywwood ma quelli come Gandhi o film di quel genere.
Immagino dei passeggeri che entrano dai finestrini e sui predellini d'ingresso del treno.
Sarà così?
Racconta cosa fanno per passare quattordici ore su un treno da Delhi a Varanasi o Benares ; cosa mangiano.
Moi fà venire in mente quando sui treni Milano - ReggioCalabria o Bari o giù di lì dopo mezz'ora di viaggio si aprivano delle sporte e si inbandiva il tavolinetto oppure si stendeva una salvietta su una valigia e comparica di quelle pagnottone di pane pugliese e frittate, uova sode fieschi di vino e poi rutto libero all fine della colazione.
ciao pa
baci
condivido molte, forse tutte le cose che dici. prima di tutto condivido quella sensazione malinconica del treno, del vederti passare davanti luoghi e persone solo intravedendoli e immaginandoti la loro vita e rendendoti conto, forse solo in quel momento che esistono e che però non faranno mai parte di te, che tu sei solo un osservatore esterno.
capisco nel midollo il tuo amore per una città sporca, storica, e complessa come varanasi, che un po' come lisbona cade a pezzi e gode di questa sua decadenza, ed è parte imprescindibile di sè.
sorrido e mi si apre il cuore a pensarti ancora una volta "all'avventura", così lontano (tu sì) da dove tutto è cominciato eppure (nonostante la biondezza, la bianchezza e la donnezza) così parte di te che ormai neanche l'elettroforesi.
ti penso menina,
até breve,
Ceci
Cecinssss!!! Dimentichi l'altro aspetto in comune tra Varanasi e Lisboa: i toccatori di culo per strada!!! Ti ricordi?!?! Ma tutte a me, oh! XD
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