sabato 12 dicembre 2009

Divali ad Amritsar e matrimonio a Moga



Alla stazione di Amritsar noi cinque dolci donzelle italiane eravamo le uniche straniere all’orizzonte, ben cariche di borse e borsoni, mentre ci chiamavano da tutte le parti, ma noi volevamo solo il nostro pick-up, un ragazzo che, come promesso, ci aspettava davanti a una riproduzione del Tempio d’Oro con un cartello in mano: “CJ International”, il nome del nostro albergo. Abbiamo attraversato la città per giungere finalmente a destinazione, dopo mezzanotte. Il nostro hotel era davvero proprio di fronte al Tempio d’Oro (che non è -solo un bar dove si va a far l’happy hour con ESN, ma soprattutto il tempio più sacro della comunità sikh… Per info vi rimando a wiki, che insomma, ne sa: http://it.wikipedia.org/wiki/Sikhismo & http://it.wikipedia.org/wiki/Tempio_d%27Oro ), il quale, per Divali, la festa delle luci, di cui ho già parlato diffusamente l’anno scorso (come direbbe la prof. Dolcini “Andarselo a vedere!” http://varanasindiario.blogspot.com/2008/11/28-ottobre-divali.html ) era illuminato a festa e le luminarie si riflettevano nella piscina interna al tempio. Una vista talmente incantevole che ci siamo commosse tutte (non solo io, ecco!). Dopo aver mangiato toast e bevuto chai ci siamo messe finalmente a nanna.

La mattina successiva ci siamo preparate e infighettate per bene per visitare il Tempio. Definirlo stupendo è forse riduttivo. Per entrare bisogna lasciare le scarpe nelle scarpiere, si pucciano i piedini in una piscinetta, ci si copre la testa, e poi finalmente si entra in punta di piedi in un mondo incantato di marmo bianco, illuminato dalla luce del sole del mattino. Nella piscina interna i devoti (maschi) si bagnano, vestiti solo dei loro mutandoni sikh e del turbante. Questa catarsi rituale che si ripete da secoli è così emozionante... Un senso di pace e tranquillità e serenità pervade il Tempio d’Oro, se non fosse per i soliti indiani rompiballe che cercano di scattarci foto di sgamo e che vengono rimproverati dalle guardie nei loro costumi tradizionali blu e zafferano, che in genere sono più solerti di questi:

Ci siamo poi messe in fila per entrare al gurudwar (il tempio sikh) vero e proprio, ovvero il cuore del sikhismo: un edificio completamente rivestito d’oro, per entrare nel quale abbiamo dovuto fare una fila di un’ora sotto il sole cocente di mezzogiorno (perché il tempismo è il nostro mestiere), ma ne è valsa decisamente la pena: completamente rivestito di marmo e di piastrelle colorate, in sottofondo le voci dei musicisti, accompagnate dal suono melodioso dell’harmonium, del sitar e della tabla, i mormorii e i canti dei fedeli, le chiacchiere di qualche turista irriverente…

Davvero emozionante.

Una volta uscita dal gurudvar, io e l’Ottavia siamo andate a riprendere le scarpe. Che non si trovavano. Paura e panico ad Amritsar. Al ché siamo entrate a cercarle, e sembrava di essere in un impianto di stagionatura di pecorino, da cui però siamo uscite vittoriose, dopo una mezz’ora di ricerche.
Dopo aver fatto le brave ragazze S, come dice la Lucia, dove “S” sta per sikh, siamo andate al Jallianwala Bagh, il giardino dove nel 1919 centinaia di uomini, donne e bambini sono stati fucilati dai britannici. Ma siamo dovute scappare in fretta, inseguite da orde di indiani armati di macchine fotografiche analogiche (quelle che fino a un po’ di tempo fa si trovavano nel fustino del Dash, per dire) e cellulari che scattavano all’impazzata… famiglie che volevano stringerci la mano, sapere chi fossimo e così via… Eravamo braccate, ma siamo riuscite a liberarci.
Siamo salite su un autorisciò




alla volta del Mata mandir, il tempio della Madre, che, secondo la tradizione, dovrebbe aiutare le donne ad avere figli. Più che in un tempio, a noi sembrava di essere alle giostre, tra casa degli specchi, cuniculi da casa degli orrori, rigagnoli stagnanti da guadare… Per poi arrivare finalmente davanti alla statua della santa: ecco che abbiamo capito perché è venerata dalle donne. È talmente brutta che le donne, guardandola, si consolano e si rincuorano: “se ce l’ha fatta ‘sta cessona, a sposarsi ed aver figli, ce la possiamo fare tutte!”.


Infine siamo tornate al Tempio d’Oro per ammirarlo in versione notturna, illuminato dalle luminarie di Divali e dalle candele, che si riflettevano sul bianco del marmo e nell’acqua. Così anche il pomeriggio di Divali è trascorso, ed eccoci pronte a tornare in hotel per ammirare i


fuochi d’artificio delle sette. Ci siamo piazzate in pole position in terrazza con il naso all’insù… Lo spettacolo era favoloso, sembrava di essere nel cartone animato di Aladdin, quando Jasmine è sul terrazzo e Aladdin la prende per mano e la invita a salire sul tappeto volante cantandole “Ora vieni con me verso un mondo d’incanto, principessa è tanto che il tuo cuore aspetta un sì” http://www.youtube.com/watch?v=B2xsbrIqnX0, praticamente una delle mie scene preferite di Disney… Davvero incantevole, emozionante, commovente.


I fuochi d’artificio sono durati tantissimo, poi ci siamo vestite a festa e siamo andate alla ricerca dei “matching churi”, i braccialetti da abbinare. Le altre fanciulle hanno comprato le scarpe, e, tra una cosa e l’altra, s’è “fatta una certa” e il ristorante panjabi dove volevamo andare a mangiare ha chiuso. Così abbiamo deciso di concederci, dopo quella lunga giornata da turiste fai-da-te, una cena luculliana, per cui abbiamo speso, in cinque, 1000 rupie. Tipo 15 euro. La serata è finita nel delirio più totale, complici stanchezza, rincoglionimento ed entusiasmo per la giornata trascorsa, faticosa ma splendida.
Il 18 era il nostro ultimo giorno ad Amritsar, che la sottoscritta ha passato a fare interviste per il progetto, mentre le altre didi compravano altre scarpine panjabi… GRRRR!!!
In compenso, con la scusa dell’intervista, sono riuscita a fare la foto al receptionist figo dell’albergo, e sono stata così osannata dalle altre fanciulle. Effettivamente, questi ragazzi turbantati c’hanno il loro fascino, e da quando sono in India devo dire che la concentrazione di ragazzi più belli, o se non altro decenti rispetto alla -assai bassa- media indiana, l’ho trovata proprio in Panjab, il granaio dell’India. E per “granaio” non mi riferisco certo al locale di Settimo.

Nel primo pomeriggio siamo saliti in taxi alla volta di Moga, l’allegro paesello di Gurvir, l’amico di Lucia, che ci ha invitate tutte al matrimonio di sua sorella, dandoci l’opportunità di assistere a un matrimonio panjabi, considerato come il re dei matrimoni indiani, per la sua vitalità e per i suoi balli tradizionali, in particolare il cosiddetto bhangra, che è tipo questo: http://www.youtube.com/watch?v=ZW7sAMTLDas .
 

Dopo tre ore di viaggio, trascorse cantando e ridendo e facendo video, e guardando fuori dal finestrino le campagne rigogliose e le risaie, i gurudwar, i bus affollatissimi di gente comodamente (?) seduta sul tetto che ci salutava… Finalmente siamo arrivati a Moga, conosciuta come la città della Nestlé. Dopo un pranzetto nel nostro hotel figo, sono venuti a trovarci Gurvir, con sorella minore e cognato, che poi ci hanno portato in macchina (otto in una cinque posti, ovviamente) a fare shopping in un centro commerciale, dove io e l’Ottavia ci siamo contese una dupatta :) Ma ho vinto io perché, come dice lei: “Lo shopping è come lo sport: bisogna saper perdere!”. Volevamo farci fare il mehendi (l’henné), ma ormai era troppo tardi, e, mentre eravamo in macchina, Gurvir ci ha annunciato raggiante che eravamo invitate alla festa di pre-matrimonio con tutta la famiglia. Noi eravamo stra-cotte, vestite alla bella e meglio, ma non potevamo certo rifiutarci! Così, dopo le prime reticenze, siamo arrivate a casa della nonna di Gurvir, dove c’era almeno una cinquantina di persone agghindate a festa che ballava e mangiava… Noi ci siamo



unite al gruppo di fanciulle danzanti e abbiamo cominciato a copiare tutto quello che facevano loro. È stato davvero divertentissimo, tranne quando è arrivata una signora grassa e bruttissima, dalle fattezze di un satiro, che ha cominciato a strattonarmi pretendendo che ballassi con lei. Ovviamente -ovviamente per gli indiani, non certo per noi!- donne e uomini ballavano separati, percaritàdiddio, non vorrei mai che si toccassero accidentalmente, eh! In ogni caso è stato molto divertente e, proprio perché non c’erano maschi rompiballe attorno, rilassante. Stanche morte, siamo andate a mangiare, e poi la sorella maggiore di Gurvir ci ha fatto il mehendi sulle mani... Tranne a me, ché me l’ha fatto la Lucia. Abbiamo scoperto praticamente alla fine della serata chi era la sposa: era talmente giovane che non pensavamo neanche lontanamente che potesse essere lei. Ventun anni, ancora una bambina!
È stata davvero una bellissima serata, ci siamo sentite davvero parte della famiglia e sono stati tutti molto gentili con noi! Poi ci hanno riaccompagnate in hotel e siamo crollate immediatamente, eravamo proprio stanche! E poi… Dovevamo riposarci, mica potevamo presentarci con le samsonite sotto agli occhi, proprio noi, le VIP del matrimonio!
Ed è arrivato così il giorno tanto atteso, il momento di sfoggiare i nostri salwar kamiz più belli, detti anche punjabi dress (e ho capito finalmente perché si chiamano così, visto che il Panjab è uno stato a maggioranza sikh, e le donne sikh non indossano la sari, bensì il punjabi dress, appunto), i nostri churi e gioielli vari.
Dovevamo essere alle 10.30 al resort dove si teneva il ricevimento ma quelli dell’albergo si erano dimenticati di chiamare il taxi, e, quando gliel’abbiamo fatto notare, ci hanno chiesto 1000 rupie per un quarto d’ora di strada. Così abbiamo recuperato un taxi per strada, che, per 250 rupie (che comunque eran già tante) ci ha portate a destinazione. Il resort era un salone enorme, con forse un migliaio di sedie, e i camerieri passavano avanti e indietro a portare chai, caffè latte, succhi di frutta, bibite e cibo, tanto cibo. E c’era anche il self service, e persino il banchetto dei succhi e della frutta fresca, e mi pare superfluo aggiungere che nessuna di noi s’è tirata indietro.

In realtà il ricevimento era solo per gli ospiti. Lo sposo è arrivato più tardi, preceduto dalla banda, come al solito vestita in maniera assolutamente improbabile, accompagnato da amici e parenti maschi, e ha cercato di entrare nel salone. Ma c’eravamo noi donne a impedirglielo, con un nastro rosso davanti alla porta, chiedendo loro soldi. Così è stata intavolata un’interessante contrattazione -manco il giorno del matrimonio gli indiani riescono a non contrattare, ahahah!- e i baldi giovani sono riusciti ad entrare solo dopo aver sganciato più di un migliaio di rupie. Dopo l’entrata trionfale dello sposo, ci siamo spostate nella casa della sposa, la quale sembrava un’altra persona, vestita con un lehenga (completo top, gonna e dupatta) bordeaux (che, insieme al rosso, è il colore tradizionale della sposa) completamente lavorato con decorazioni dorate, argentate e verdi. Era davvero bellissima, e tanto tenera…




Subito dopo siamo finalmente andati nel tempio, proprio di fianco alla casa, per la cerimonia. Della cerimonia non ho capito niente, visto che era in sanscrito (credo), in compenso ho sofferto terribilmente perché, mentre ero seduta tranquilla per terra, un bellimbusto ha avuto la brillante idea di schiacciarmi il piede nudo. E di schiacciarmi l’anello da piede, che, sul davanti mi premeva dolorosamentissimamente sul dito, e dietro mi faceva il pizzicotto. Non so come ho fatto a non urlare, e non piangere, faceva talmente male che mi prendeva i nervi e non potevo far nulla, neanche toglierlo, perché era incastrato. Ho dovuto soffrire per un quarto d’ora prima di uscire zoppicando, e per fortuna c’ha pensato l’Ottavia a togliermelo, perché io non riuscivo proprio! Mentre tutti assistevano alla cerimonia e io cercavo di sopportare stoicamente, le parenti della sposa erano fuori dal tempio a nascondere le scarpe per poter recuperare altri soldi dai parenti dello sposo.

Finita la cerimonia, disincastrato l’anello e ritrovate le scarpe, siamo tornati tutti al luogo del ricevimento, gli sposi in una macchina bianca, regalo dei suoceri al neo-genero, decorata con boccioli di rosa, attaccati con lo scotch. Perché il kitschume indiano non si può certo nascondere!
Ancora cibo, al banchetto, e persino alcolici. Cosa non avremmo dato per una birra… Ma le donne mica possono bere… E ci siamo dovute trattenere, a forza. Eppure ci avrebbe fatto bene un goccetto, per sopportare tutti i mocciosi che c’inseguivano per tutto il resort e tutti i ragazzi che volevano fare foto con noi. Ma c’era la nostra guardia del corpo, Gurvir, che controllava tutto. Gli uomini non avevano proibizioni riguardo all’alcool, e infatti dopo un po’ si sono lanciati nelle danze, mentre c’era un gruppo di “professionisti” sul palco che ballava e cantava in playback.




Verso la fine è cominciata la processione per la foto con gli sposi, seduti su un divano posto su un palchetto tutto addobbato e pieno di fiori finti, che agli indiani piacciono tanto.
E, dopo le foto di rito, tutti fuori, a salutare gli sposi. Questo è il momento più triste del matrimonio, il momento del distacco. Infatti la sposa lascia la sua casa per trasferirsi nella casa del marito, insieme alla sua famiglia, ed è sempre un terno al lotto, visto che non sa mai cosa l’aspetta.
Anche questo era un matrimonio combinato, come la maggior parte dei matrimoni indiani. Certo, ogni tanto qualche matrimonio d’amore c’è, ma in genere si affidano alla scelta dei genitori, che di sicuro “sanno cos’è meglio per loro”. Il matrimonio combinato non è quindi da considerare come un ripiego, né una costrizione (ovviamente ci sono le eccezioni, ma in genere è così) per i giovani, forse perché non hanno conosciuto altre realtà, o forse semplicemente perché funziona così, da secoli, e in fondo in fondo non va poi così male. S’impara a volersi bene, a volte ad amarsi, e ci si sostiene a vicenda per tutta la vita, visto che il divorzio non è visto di buon occhio dalla società indiana (sebbene i numeri stiano aumentando molto, soprattutto nell’India urbana). Ma questo non è l’unico motivo per cui ci sono così pochi divorzi: le coppie davvero cercano di restare insieme, si sacrificano per il bene dei figli e provano a restare uniti. Quello che forse in Occidente verrebbe definito “ipocrisia” qui si chiama “spirito di sacrificio”. E forse, un po’ di spirito di sacrificio farebbe bene anche a noi.




Abbiamo salutato tutti, con un po’ di magone, e siamo tornate all’albergo, dove mi aspettava una bella sorpresa: il conto della lavanderia raddoppiato rispetto al giorno prima. Il manager dell’hotel ha sparato una scusa dopo l’altra, facendomi arrabbiare tantissimo, e obbligandomi a sclerare per l’ennesima volta in hindi. Ovviamente l’ho vinta io, ma è davvero frustrante dover ogni volta incazzarsi per farsi rispettare!
La mattina dopo le ragazze sono partite presto, mentre io avevo il treno alle 18.45 e quindi ho pensato di fare un giro per la città e poi partire alle 15 con calma.
Ma la sfiga era in agguato, e ho cominciato a stare malissimo, tra squarao e vomito, e ho chiesto di poter rimanere oltre il mezzogiorno, ora del check-out… Dopo il litigio ero abbastanza timorosa, ma, come volevasi dimostrare, proprio per quello sono stati gentilissimi e si sono prodigati per me. Soprattutto perché, alle 15 non mi reggevo in piedi e avevo paura di non riuscire a sopportare 22 ore di treno, da sola, e ho dovuto rimandare indietro il tassista che era venuto a prendermi. Uno dei manager mi diceva di prendere delle medicine e di partire, ma io non mi sentivo sicura, proprio per niente, e ho pensato che sarei partita il giorno dopo perché stavo davvero troppo, troppo male. Nel frattempo ho chiesto di poter usare internet per guardare i treni del giorno dopo, ma non ce n’erano. E c’ho impiegato un due ore buone per fare questa ricerca, dopo di che mi sono resa conto che stavo molto meglio e che ero in grado di intraprendere il viaggio di ritorno verso Varanasi. Così ho richiamato il tassista, ho chiamato Gurvir per avvertirlo della mia decisione, rassicurandolo, perché era preoccupatissimo, e sono partita alla volta della stazione di Ludhiana, a un’ora e mezza di distanza (40 km qui sembrano un abisso), ovviamente in ritardo, perché mica posso star tranquilla!
Sono arrivata in tempo, trafelata, ma l’ora e mezza canonica di attesa era d’obbligo. Una volta salita sul treno ho dormito, dormito, dormito. E quando mi son svegliata mi sono accorta che mi avevano rubato i biscotti! :D E il 21 era il giorno della laurea della Mary, che io mi son persa… Ed ero così triste che mi sono rintanata sotto la mia copertina rubata alla business class della Swiss a singhiozzare un po’ in pace.
Finché, finalmente sono arrivata a Varanasi, ed ecco il cartello che mi attendeva:


Praticamente un invito allo shopping selvaggio! :D

Alla prossima,
Sò! :)

lunedì 16 novembre 2009

Rishikesh, 12.10-16.10


Ed eccoci giunti a Rishikesh, dopo due ore di viaggio in autobus, dopo aver parlato con tutti alla stazione degli autobus di Haridwar per capire quando arrivava il nostro bus, ingannando il tempo sgranocchiando del sano “coccobbbello”, allo stratosferico prezzo di 5 rupie alla fetta (meno di un centesimo di euro!).
Arrivati (ero sempre con Steffi e Ian) a Rishikesh c’era già buio, faceva freddo ed eravamo stanchissimi, così abbiamo pensato di fermarci prima a mangiare e poi cercare un posto per la notte (anche una mangiatoia riscaldata da un bue e un asinello andava bene!). Mentre mangiavamo abbiamo visto un ragazzo occidentale e gli abbiamo chiesto se conoscesse una guest house in cui potessimo trascinare le nostre stanche membra, e, appena ha aperto bocca, ho capito che era italiano. Luigi, questo il suo nome, ci ha consigliato la guest house in cui stava lui e poi ci ha invitato a mangiare con lui e i suoi compagni di yoga.



Rishikesh è un’altra delle millemila città sacre per gli hindu, sulle montagne ed è il punto di partenza per il Char Dham, il pellegrinaggio che termina a Gangotri e Yamunotri, dove si trovano, rispettivamente, le sorgenti della Ganga e della Yamuna.
Ma non ci sono solo hindu a Rishikesh, tutt’altro: infatti, è piena di occidentali che vanno a fare yoga e meditazione, ed è un posto abbastanza amato dai fricchettoni (nei confronti dei quali nutro una profonda idiosincrasia, da quando sono in India: il ’68 è passato da mo’, siete anacronistici!!! Piantatela di andare in giro conciati come dei barboni a piedi nudi con quei rasta e la croppa addosso, LAVATEVI, ché persino il poveraccio più disgraziato di Varanasi ha più dignità!!! Ok, scusate, ho finito il mio j’accuse), dagli anni Settanta, quando anche i Beatles erano passati di qua e si erano fermati in un ashram, che ora è conosciuto appunto come “the Beatles ashram”.



Abbiamo quindi cenato con una ventina di ragazzi provenienti un po’ da tutto il mondo: Stati Uniti, Italia , Germania, Israele, Giappone, Messico, Svezia, e poi siamo andati alla guest house, dopo aver scarpinato un bel po’ e aver scalato gradini altissimi coi nostri zainoni in spalla. Appena arrivati, uno dei tipi dell’ostello ha pensato di fare il piacione offrendomi un massaggio (che comunque avrei dovuto pagare, molto probabilmente in natura), è assurdo come ‘sti indiani ci provino incondizionatamente e imprescindibilmente da tutto e tutti.
In ogni caso, ci siamo sistemati nelle nostre camere (stavolta ognuno nella proprie), e poi sono uscita, avvolta nella coperta, a vedere la notte stellata di Rishikesh… Il cielo era terso e trapuntato di stelle luminosissime, e si sentiva solo il cri-cri dei grilli insonni e lo scorrere impetuoso della Ganga (in questo punto la corrente è molto forte), e con quest’immagine così romantica nella mente e nel cuore sono andata a dormire contenta e in pace col mondo.




L’indomani mattina, il 13, ovvero l’ultimo giorno di antibiotici, mi son svegliata con dei bei colpi di tosse secca e mal di gola, ma, di fronte a una visione simile dall’ultimo piano della mia guest house posso dire di aver dimenticato quasi tutti i miei acciacchi.
Ho fatto colazione in un daba, i tipici ‘ristorantini’ scrausi indiani che ci sono per strada, con chai e alu paratha (ovvero pane fritto ripieno di patate, sì, giusto per tenermi leggera di prima mattina!) insieme a un ragazzo della Repubblica Ceca che sta girando l’Asia in bici… Facendo un giro per la città ho trovato un’estetista, e ho deciso di riprovare l’ebbrezza di farmi fare la ceretta, ormai c’ho preso gusto, dopo l’esperienza dell’anno scorso (http://varanasindiario.blogspot.com/2008/10/14-ottobre-2008-lezione-n1.html)!




All’inizio ho chiesto il prezzo per una mezza ceretta e mi ha sparato 250 rupie. Alla fine, ho pagato solo 350 rupie per ceretta intera, pulizia del viso e della schiena. Nel frattempo, ho chiacchierato tantissimo -uh che strano!- con l’estetista, una ragazza di 24 anni di nome Monika. Come in ogni conversazione indiana che si rispetti, il discorso è caduto sul cinema: Ti piace Bollywood? Chi è il tuo attore/attrice preferita/o? Qual è il tuo film preferito?



Quando le ho rivelato che tra i miei film di Bollywood preferiti c’è Dostana (di cui potete gustare un assaggio qui, mi raccomando donne: preparate il catino per la bava: http://www.youtube.com/watch?v=ukU3brIKEG8 ),
ovviamente solo ed esclusivamente per la profondità della trama, il cast d’eccellenza, i dialoghi mai scontati… Non certo perché c’è quel figo di John Abraham che riuscirebbe a rendere sopportabile persino un film di Natale dei fratelli Vanzina… In ogni caso, sarà stata la regia magistrale, la sceneggiatura eccellente, o forse il montaggio perfetto, ma a me il film è piaciuto, e l’ho trovato esilarante. La trama ruota intorno alle due figure maschili, John Abraham e Abhishek Bacchan, che si fingono gay per poter vivere in una casa meravigliosa a Miami, convinti di dover condividere l’appartamento con una cozza. In realtà, la “cozza” è Priyanka Chopra, Miss Mondo, di cui, ovviamente si innamoreranno entrambi. Ecco, in tutto questo, Monika mi ha spiegato -a bassa voce- che a lei non è piaciuto il film perché i due protagonisti fingono di essere gay, opinione che mi è stata confermata, più tardi, anche dal padrone di un negozio di cd e dvd.
In un paese come l’India, dove il reato di omosessualità è stato depenalizzato solo pochi mesi fa -finalmente, direi!- ma dove gli uomini camminano mano nella mano, si siedono in braccio l’uno all’altro guardandosi negli occhi, e spesso hanno la loro prima esperienza sessuale con altri uomini, mi stupisco di come le persone riescano a conservare quell’omofobia ipocrita e a scandalizzarsi di fronte ad un film in fondo banale e semplicistico come Dostana. Mah!
In ogni caso, l’estetista mi ha invitato ad andare al cinema con lei, il giorno dopo, in moto, ed io ho ovviamente accettato.
In serata sono andata alla mia prima lezione di yoga, ed è stato abbastanza buffo, perché oltre ad avere l’agilità di un rinoceronte impagliato, non capivo nulla di ciò che spiegava il maestro, che parlava in inglese ma con l’accento dell’India del Sud, e così cercavo di copiare ciò che facevano gli altri, oppure c’era Luigi - il ragazzo italiano- che ogni tanto mi suggeriva cosa fare. Grazie alla mia innata flessibilità e alla mia proverbiale grazia e leggiadria (ahahah), sono riuscita -mi domando ancora come!- a stare su con tutto il corpo appoggiando solo la testa e i gomiti per terra. Dopodiché ho cenato e ho mangiato come un bue, per scongiurare la disgraziata eventualità di riuscire a perdere anche solo mezzo etto svolgendo attività fisica. Anche la mattina successiva (il 14) ho provato a fare due ore di yoga (dalle 8 alle 10), ma ho passato un’ora e mezza a sbadigliare, un quarto d’ora -forse di più- a dormire, mentre gli altri facevano meditazione, e i rimanenti quindici minuti a cercare invano di governare il mio corpo e la mia mente.
Sono riuscita a riprendermi solo dopo la supercolazione, a base di porridge e frutta, lemonana (succo di limone e menta), e soprattutto il cornetto con la Nutella. Sempre per scampare un eventuale deperimento, eh!






Nel pomeriggio doveva chiamarmi Monika per farmi sapere a che ora andare da lei per andare al cinema ma mi ha tirato buca, e quindi sono andata a vedere un tempio molto bello, affacciato sulla Ganga, disposto su molti piani, costituito da moltissimi altari dedicati alle varie divinità hindu. A questo proposito, vorrei ricordare che l’induismo non è affatto una religione politeista: tutte le divinità sono manifestazioni diverse del Divino. E, in genere, ogni fedele, ha una divinità di riferimento a cui è particolarmente devoto e a cui indirizza le proprie preghiere.
Dopo aver salito tutti i gradini del tempio e aver suonato tutte le campane -qui sono i devoti che le suonano, e c’è un continuo din-don-dan: insomma, qui fra Martino campanaro resterebbe disoccupato, ecco!- stavo per uscire e mi son sentita toccare il culo… Strano, eh… Infatti mi sono girata con fare bellicoso, pronta a tirare schiaffi… E invece era una signora che cercava di aggiustarmi la maglia, che non avevo tirato giù bene, dietro. Ma dico io, chiamarmi e dirmelo no, eh? Tra l’altro poverina, devo averla davvero guardata malissimo, infatti mi sono scusata.




La sera, dopo aver goduto di un tramonto meraviglioso, abbiamo mangiato tutti insieme, con Steffi, Ian, Luigi, Sophia e Sigurd, un’altra coppia di tedeschi, e altra gente. Ogni giorno conoscevo gente nuova, tra cui persino un inglese che stava cercando di imparare hindi con il libretto “Teach yourself”, e a cui ho spiegato qualche rudimento della lingua e dell’alfabeto. In quei giorni trascorsi a Rishikesh mi sono resa conto che, pur essendo arrivata da sola, ho conosciuto più gente che in un mese a Varanasi -anche se è ovviamente diverso, con gli altri turisti- e che non mi sentivo sola.



All’inizio ero partita con l’idea di andare a Mussoorie a trovare le altre ragazze, ma poi, una volta a Rishikesh c’ho ripensato, dal momento che avrei dovuto tornare ad Haridwar, prendere l’autobus per Mussoorie, prendere il taxi per arrivare a casa delle ragazze, patire il freddo, e poi far ritorno di nuovo ad Haridwar per prendere il treno per Amritsar. E, come al solito, io… VOGLIA DI SBATTERMI ZERO, quindi ho deciso di rimanere più a lungo a Rishikesh, dove mi sono trovata molto bene, e di andare poi direttamente ad Haridwar, dove avrei incontrato le donzelle.





Il penultimo giorno a Rishikesh l’ho inaugurato con una leggera colazione israeliana, a base di hummus -una sorta di pappetta salata a base di ceci, patatine fritte con ketchup, insalata di cetrioli (non so come né perché, ma ho cominciato a mangiarli, e pensare che non mi sono mai piaciuti!), pomodori, peperoni e olive, e una sorta di piadina. Ah, e il succo d’arancia, che però mi ha messo un po’ di pesantezza. Non era certo colpa di quello che ho mangiato, figuriamoci! L'espressione contenta della foto, ça va sans dire, era proprio dovuta alla mia super colazione!




Dopodiché io, Ian e Steffi ci siamo preparati per andare alle cascate… Dopo aver percorso stradine attraversate solo da asini e dai loro padroni e sentieri impervi, siamo arrivati ad un ruscello, dove ho pucciato i piedi. E finalmente posso dire di essermi bagnata nella Ganga ma! Poi i miei amici sono andati avanti, io ero in infradito, e non me la sentivo di fare l’Indiana Jones della situazione, e quindi preferito fare l’indiana e tornarmene indietro. Così sono andata un po’ in giro a fare interviste, scoprendo tra l’altro che il consiglio che le persone del luogo vorrebbero dare ai turisti è di non sporcare la Ganga ji -ma molti di loro riconoscono che questo vale più che altro per i turisti indiani- e che, a parte rare eccezioni, apprezzano i turisti stranieri perché sono molto gentili ed educati. Ed è vero, in effetti, visto che gli indiani non sanno cosa sia l’etichetta: al di là dell’usare le mani per mangiare che è una consuetudine e che, in un certo senso, è più igienico che mettere in bocca degli strumenti ‘estranei’, gli indiani dicono “grazie” (dhanyavad in hindi) molto raramente, “per favore” non si usa mai e, addirittura, parole come “prego” o “permesso” non esistono proprio. Per scansare qualcuno per strada mentre passano si fanno largo a gomitate o gridando “SHIDE SHIDE!” (versione autoctona dell’inglese “Side! Side!”, letteralmente “fianco, lato”). Sparano di quei rutti che paiono delle detonazioni, e in qualsiasi occasione e senza remori, anche in faccia, mentre ti parlano, e di tanto in tanto non mancano di “far di cul trombetta”, come diceva qualcuno famoso (!).Per non parlare di quando si soffiano il naso con le mani o si scaccolano in tutta scioltezza per strada! …E in tutto questo non sono certo maschilisti: sia gli uomini sia le donne si comportano così!




Nel pomeriggio ho incontrato un ragazzo francese che conoscevo e siamo rimasti a chiacchierare un po’ in un bar, dopo ho incontrato una ragazza svedese, Sanna, che avevo visto la prima sera, e l’ho accompagnata in farmacia a comprare delle medicine, e sulla strada siamo rimaste estasiate dalla visione idilliaca del nostro primo cestino della spazzatura indiano!!!! Che emozione!!! A Varanasi non esistono cestini, perché la strada stessa è la pattumiera, e, anche volendo buttare le cose a casa, finiranno sempre nello stesso posto: per strada e poi bruciate, o buttate nella Ganga. Per la figlia del capo dell’ufficio ecologia buttare le cose per strada fa un po’ male al cuore, ma non c’è alternativa! Spesso ci si imbatte anche in batuffoli di capelli neri, che a raccoglierli tutti si potrebbe rivenderli in Italia e diventare ricchi! La cosa più triste è vedere queste povere mucche che mangiano i sacchetti di plastica… Da parte mia, non potendo certo tenermi tutta la monnezza e portarmela a casa e buttarla nella discarica di Cornaredo, cerco perlomeno di non consumare plastica e usare la borse di tela, visto che le regalano sempre quando fai shopping (e io lo faccio spesso!).



L’ultima sera io e Luigi, dopo l’ultima lezione di yoga, siamo andati a una festa, ma prima siamo passati a salutare Monika -che si è innamorata di lui- e che, forse per farsi perdonare del bidone del cinema, mi ha regalato,o forse è meglio dire ‘sbolognato’ braccialetti, orecchini, e persino un completo top-gonna-dupatta che lei non usa più.




La festa era allucinante e allucinogena, nel vero senso della parola: una trentina di stranieri radunati nel piano superiore di un ristorante, tutti completamente fatti che si muovevano come zombie -non stavano certo ballando, suvvia- ascoltando musica (MUSICA?!?!) techno e trance. C’era pure un francese scoppiatissimo, a petto nudo, tutto sudato, che saltava di qui e di là come un grillo. Mi sentivo davvero a disagio, chiedendomi cosa ci facessi io lì, cosa c’entrassi io (non che Luigi si trovasse bene, comunque, eh!) con quella manica di fricchettoni bacati. Paradossalmente, mi ero trovata molto meglio alla festa di compleanno di Karan, insieme ad indiani poverissimi ma ricchi di dignità e di valori, e di amore, rispetto a quel manipolo di cannaioli che non hanno davvero capito un cavolo dell’India, ma che torneranno a casa e dichiareranno con aria sognante che l’India gli ha cambiato la vita. Più che la vita, gli ha cambiato -in peggio- quei due neuroni che avevano dispersi nel magma della loro materia grigia! Sì, sì, lo so che divento acida quando parlo dei fricchettoni, ve l’ho già detto che ho il dente particolarmente avvelenato!



Così siamo tornati a casa dopo neanche una mezz’ora, e siamo rimasti poi a chiacchierare sotto la luna, nel giardino della guest-house.



Infine, il 16 mattina ho fatto lo zaino e mi sono preparata per raggiungere le altre pupe ad Haridwar, per poi andare finalmente ad Amritsar!




Ho preso un autorisciò in condivisione con altri otto indiani, più il riksciowala, più i bagagli sul tettuccio, ed è stato davvero molto divertente. I miei compagni di viaggio erano una coppia anziana del Sud e una famiglia, composta da tre uomini e tre donne, di cui una con il pallu (la parte finale della sari) che le copriva completamente la faccia, ma che non le impediva certo di mangiarsi il kulfi (una sorta di gelato-ghiaccolo indiano), seppur sbrodolandosi tutta. Erano tutti in pellegrinaggio ad Haridwar e Rishikesh. Tra un sobbalzo e l’altro, e gridando per farsi capire -come se le difficoltà linguistiche non fossero sufficienti!- abbiamo chiacchierato un bel po’, mi hanno chiesto come al solito se fossi sposata, cosa facevo in India… Insomma, le solite cose! Poi si sa, gli indiani sono curiosi, ma anche molto innocenti, ingenui e spontanei, e fanno tante domande, proprio come i bambini!




All’inizio il riksciowala mi aveva chiesto 100 rupie, ma io volevo sentire cosa diceva agli altri e quindi ho tergiversato, anche perché erano comunque troppe. Ad un certo punto del viaggio, mi ha comunicato che dovevo scendere e prendere l’autorikscio davanti perché i miei compagni di viaggio non andavano alla stazione come me, mentre quelli davanti sì. Visto che mi puzzava troppo di fregatura, e continuava a chiedermi 100 rupie, ho cominciato ad irritarmi, fino ad infervorarmi e infuriarmi, del tipo che io gli dicevo che mi stava fregando e lui negava, io lo ripetevo e siamo andati avanti così, poi il prezzo è sceso a 70 rupie ma non ero ancora soddisfatta, anzi, continuavo a urlare e a sclerargli contro, arrivando quasi al magone, dal nervoso, i signori che erano con me e mi hanno detto che era un prezzo equo. Soprattutto è stata la nonnina che mi ha convinta: mi ha guardata con quei suoi occhi grandi e sinceri, mia ha preso la mano e mi ha rassicurata, dicendomi che andava bene, che non mi stava fregando. No, allora, lo so che state pensando che sono sempre la solita, che c’ho sempre da dire: è vero che io sono sempre polemica, però in India se non pesti i piedi e non ti incazzi come una iena non ti rispetta nessuno, e prendi solo fregature, quindi, purtroppo, questa è la prassi. E poi, in fondo ho il cuore di panna, ecco. Infatti quando la nonnina mi ha detto che si sarebbe ricordata di me mi ha fatto commuovere. Che strano, to’!



Quindi ho finalmente cambiato autorisciò e, dopo un’ora e mezza, sono arrivata ad Haridwar, dove le ragazze mi aspettavano al ristorante “Big Ben”, che doveva essere davanti alla stazione. Io mi ricordavo di averlo visto, qualche giorno prima, così sono scesa dall’autorisciò e mi son messa a cercarlo, ma, dopo la terza persona che mi diceva che era molto lontano, mi sono fidata -del resto, il mio senso dell’orientamento è totalmente inaffidabile!- e sono salita su un risciò, dicendogli che gli avrei dato cinque rupie. Questo qui in realtà non sapeva dove fosse, ed è andato avanti, per poi tornare indietro e scoprire che, per la prima volta nella mia vita, il mio senso dell’orientamento aveva ragione, e il ristorante era proprio vicino al punto di partenza. Al ché gli ho dato due rupie, perché, oh, mica è colpa mia se lui ha sbagliato strada ed è andato avanti! Lui, ovviamente, s’è incazzato e non le ha volute. E allora ho preso e me ne sono andata.



Si vede che era giornata!



Finalmente ho rivisto Lucia, Ottavia, Valentina e Filomena (che studiano tutte hindi a Mediazione), poverine, tutte deperite per colpa dell’epidemia di squarao che le aveva colpite a Mussoorie. Siamo andate in stazione, ma, tanto per cambiare, il nostro treno era in ritardo, di più di un’ora e mezza, quindi c’è toccato aspettare in stazione, mentre un bambino, un mendicante, s’è attaccato alla gamba della povera Ottavia e non voleva più mollarla. Abbiamo viaggiato in second A/C, ovvero la seconda classe con aria condizionata, in cui viaggiano i ricchi… e i topi! Eh sì, ne abbiamo visto uno o due passarci tra i piedi: si trattano bene i topi indiani, ahah!



E finalmente, poco dopo mezzanotte, siamo arrivate ad Amritsar… Ma questo merita un post a sé stante!







Buonanotte,



!






P.s.: Suvvia, basta farvi pregare: COMMENTATE! Ché lo so che non ci sono solo la mia mamma e il mio papà, la Nadia, la Ceci e la Vale G (che ringrazio ancora per il commento splendido al post precedente) che mi leggono!

domenica 8 novembre 2009

Haridwar



È difficilissimo scrivere di tutto quello che ho vissuto in questi dieci giorni, a spasso tra Haridwar, Rishikesh, Amritsar e Moga. Sono stati dei giorni molto intensi, in cui sono stata benissimo, ho visitato posti bellissimi e ho conosciuto persone molto interessanti.

Avevo davvero bisogno di staccare da Varanasi, soprattutto perché la situescion a casa non era delle migliori, tutt’altro: mi sentivo esclusa, isolata, addirittura ignorata, e questo mi feriva molto. Soprattutto considerando che questo ragazzo prima era tutto carino e simpatico, andavamo spesso in giro insieme, e quando è arrivata la sua morosa ha cominciato a comportarsi come se io fossi invisibile. E non è che sono gelosa, semplicemente per me era un punto di riferimento, che mi è venuto a mancare. Per di più erano entrambi molto maleducati nei miei confronti, e piuttosto che stare con loro e sentirmi sola preferivo stare effettivamente da sola.

Inizialmente, l’intenzione era di stare un po’ di giorni a Mussoorie con le altre ragazze italiane che studiano lì, per poi andare tutte insieme ad Amritsar per Divali e poi a Moga, per il matrimonio della sorella di Gurvir, l’amico di Lucia.
Visto che il treno arrivava ad Haridwar, Raju mi ha consigliato di passare un giorno ad Haridwar e un paio di giorni a Rishikesh, che ne sarebbe valsa la pena, tanto più che a Mussoorie faceva molto freddo. E mentre pensavo a questo giro, mi è venuto il pallino di Goa. Avevo già in programma di andare a Bangalore a fine novembre, per trovare la Lucia didi e Sanjay, e mi sono detta che sarebbe stato magnifico vedere Goa, anche alla luce del mio progetto, essendo Goa una delle mete più richieste in India. Dopo viaggi di venti ore, le dieci ore di treno da Bangalore a Goa mi sembravano una passeggiata, e così ho deciso di prenotare i miei voli, appena prima di prendere il treno per Haridwar. E così ho prenotato il volo SpiceJet (più indiano di così si muore!) per il 23 novembre Delhi-Bangalore (non ci sono voli diretti da Varanasi, quindi mi conviene prendere il treno fino a Delhi e poi da là l’aereo), e il ritorno il 4 dicembre da Goa.


Comunque dicevo, appena finito di prenotare i miei voli, ho acchiappato il mio zainone e sono partita alla volta della stazione. Ero in ritardo e volevo prendere un autorikscio, ma ho trovato un rishowala che ha accettato il prezzo indiano senza batter ciglio e mi ha promesso che avrei fatto in tempo a prendere il mio treno. E così è stato, e gli ho dato addirittura 5 rupie di mancia (mi sono rovinata). Però non avevo avuto il tempo di comprare l’acqua in stazione, e comunque ero convinta che l’avrebbero venduta sul treno, così non mi sono preoccupata.  Sono salita su una carrozza a caso perché non trovavo la mia, e c’era un ragazzino che ha cercato di aiutarmi, oltre ad un uomo con la sua famiglia (non mi fido di uomini soli, qui!). 
Ho chiacchierato un po’ col ragazzino, e dopo un po’ di domande mi ha chiesto se fossi sposata. Io, come al solito ho


risposto di sì -e avevo anche i piedi rossi, proprio come le donne sposate- ma questo dopo due secondi mi ha chiesto se avessi un cellulare e se gli davo il numero. Al mio rifiuto sdegnato “No, ma che razza di domanda mi fai, ti ho appena detto che sono sposata!”, mi ha detto: “Eh sì, hai ragione, è corretto!”. E certo che è corretto, sei proprio un babbo, volevo dirgli. Tra l’altro avrà avuto 18 anni, ma si può? Dopo pochi minuti ha avuto la decenza di andarsene, per fortuna. A quel punto sulla carrozza eravamo rimasti solo io, un altro signore e la famiglia di prima. Abbiamo cominciato a parlare un po’ ma io ero assetata, e dopo due ore di viaggio stavo morendo di sete, visto che non veniva nessuno a vendere nulla. Per di più, dovevo anche prendere le pastiglie -ero stata dal dottore pochi giorni prima perché il mal di gola non mi passava e mi aveva diagnosticato faringite e tonsillite asettica (se si dice così), un bijou, insomma!- e dovevo mangiare la schiscetta preparata da Mangla, ma senza bere era da suicidio. Ad un certo punto ci siamo fermati ad una piccola stazione e il signore è scelto. È risalito dieci minuti dopo con una bottiglia d’acqua per me, che gentile, mi stavo quasi commuovendo! (strano eh, non mi succede mai, ahahah!)…



Dopo qualche ora -alcune delle quali passate restando completamente fermi tra villaggi sperduti- sono scesa insieme al signore con famiglia per cambiare vagone… E il nuovo vagone era pieno, rumoroso, incasinato… Come tutti i vagoni sleeper indiani, del resto. Avevo prenotato la cuccetta in alto, e mi ci sono fiondata… Ma era sporchissima, e non sono bastate quattro salviette bagnate per pulirla… Ma per farmi stare un po’ più tranquilla sì: se non altro profumava di culetto di bambino! :) Durante il viaggio ho visto una ragazza bionda che mi sembrava di aver già visto che mi sorrideva e mi salutava con la mano, così più tardi mi son fatta coraggio e sono andata a parlare con lei. Si chiama Stephanie e viaggiava con il suo ragazzo, Ian. Anche loro stavano andando ad Haridwar e neanche loro sapevano di preciso dove soggiornare, così ci siamo riproposti di cercare insieme un posto dove dormire.

Allora, lo so che non è una cosa particolarmente poetica da raccontare, ma fa anche questo parte del viaggio. E quindi lo scrivo. Venti ore di viaggio sono già di per sé pesanti e difficili, ma quando si ha il ciclo sono terribili. I cessi sono ovviamente uno schifo, e non ci sono appendini dove attaccare il sacchettino con tutto il nécessaire, la borsetta, la borsa-porta documenti, quindi bisogna improvvisarsi mozzi e inventarsi nodi per cercare di assicurare il tutto alla maniglia sperando che regga. La turca è igienica, ma senza degli appigli a cui aggrapparsi richiede un equilibrio e un'agilità degni di acrobati circensi. Eppoi, igienica quanto volete ma cascarci dentro non è proprio il massimo della vita! Oltretutto, riuscire a fare tutto e senza bagnarsi/sporcarsi/cadere/sbattere da qualche parte è davvero un’impresa da Tom Cruise in Mission Impossible, quindi io davvero proporrei a alle agenzie pubblicitarie che si occupano di sfoggiare le superqualità degli assorbenti mentre ragazzine spensierate fanno la ruota o vanno in paradute, o salgono sulle scale con i pantaloni bianchi “in quei giorni”… Prendete come prossima testimonial della Nuvenia o della Lines una turista occidentale in viaggio da sola in sleeper per 20 ore con il ciclo… È quella la vera sfida!!!
Le indiane, invece degli assorbenti, usano dei panni che lavano e poi riusano, un po’ come facevano le nostre mamme e, negli altri giorni, non usano le mutande.

Bene, dopo questo piccolo siparietto sponsorizzato da Lines India, ahahah, posso continuare a raccontare del mio viaggio, che in realtà è passato anche abbastanza in fretta, visto che ho dormito molto. Per cena ho mangiato un thali, ovvero il tipico pasto indiano: riso, daal (zuppa di legumi), verdure e chapati (pane non lievitato), anche se ho dovuto fare il giro di mezzo treno e farmi strada tra i vari accampati per terra per cercare l’omino del cibo per dirgli che mi aveva dato due daal e niente verdure. Tra l’altro, il thali è sì un pasto nutriente ed equilibrato, però, dopo un mese che mangi riso, daal, verdure, chapati e dahi (yogurt) vorresti solo un panino dal lurido con salamella, peperoni, cipolle e qualsiasi altra schifezza unta possibile e immaginabile, per poi poterlo digerire, con calma, dopo la pensione.
A proposito, papà, visto che me lo chiedevi: qui il sistema pensionistico dovrebbe esistere, ma in realtà sono i figli che mantengono i genitori, in particolare i figli maschi (ti va male, eh!).  Sono sempre le donne a spostarsi nella casa del marito e della sua famiglia, mentre al figlio maschio è affidato il compito di prendersi cura dei genitori e occuparsi del loro sostentamento, e officiare i riti funebri una volta che i genitori sono morti. È anche e soprattutto per questo motivo che le figlie femmine -che invece hanno bisogno della dote per sposarsi, e per di più abbandoneranno definitivamente la casa paterna- non sono sempre ben volute, e viene spesso praticato l’aborto selettivo, sebbene sia vietato dalla legge.

Continuo ad aprire parentesi e poi non so più cosa stavo dicendo, ma vabbè, dai, in fondo faccio sempre così, anche quando parlo!
Il viaggio comunque è proseguito tranquillamente, e, malgrado un paio d’ore di ritardo, siamo finalmente arrivati ad Haridwar. Ciò che pare strano è che in Italia la gente sarebbe impazzita per due ore di ritardo, io per prima avrei sclerato. In India no: gli indiani accettano questi ritardi con rassegnazione, ormai non ci fanno neanche più caso. Prendono il treno sapendo a che ora partono ma boh, chissà quando arriveranno. Di certo, nessun indiano sul mio treno era pendolare, il che cambia tutto, certo, ma mi pare che Trenitalia e Indian Railways si assomiglino fin troppo, ahinoi.
Arrivati ad Haridwar siamo stati accolti da una leggera brezza mattutina e dall’ufficio turistico chiuso, sebbene l’insegna dicesse il contrario. Siamo riusciti a prendere un risciò per 30 rupie in tre, compresi gli zaini, impegnandoci in un gioco d’incastri davvero pregevole. Quando siamo giunti nella zona più turistica ci siamo fermati per la colazione e poi abbiamo lasciato Ian con i nostri zaini in un baretto e io e Steffi siamo partite alla ricerca di una guest house a prezzi decenti. Quando ormai non ci speravamo più, ho avvistato una scritta in hindi e ci siamo avventurate in quel lodge. I prezzi erano buoni e la terrazza dava proprio sulla Ganga, che, però, era in secca, cosa ben strana considerando la stagione!

Dopo esserci installati nella nostra camera -mi avevano gentilmente offerto di stare in camera con loro per pagare meno- siamo andati a visitare la città brulicante di pellegrini, mentre i turisti stranieri si contavano sulle dita di una mano. Haridwar è la città sacra a Vishnu, che si dice abbia versato l’amrit, il nettare dell’immortalità, e vi abbia poi impresso la propria orma del piede. E, manco a dirlo, c’è un tempio, chiamato Har ki pauri (l’orma di Dio) eretto in quel punto, che viene visitato ogni giorno da migliaia di pellegrini hindu che si bagnano nella Ganga per espiare i propri peccati. Anche noi, da bravi pellegrini, ci siamo tolti le scarpe e abbiamo cercato di percorrere l’asfalto bollente fino a un posto all’ombra, dove abbiamo potuto ammirare le aquile reali in volo.
Nel pomeriggio siamo saliti sulla funivia fino al Mansa Devi mandir, un tempio costruito in mezzo ai monti, da cui si godeva una vista mozzafiato sulla vallata… dopo tanto tempo a Varanasi non mi sembrava vero di essere in mezzo alla natura!
Io e Steffi siamo tornate a valle a piedi, mentre ogni tre per due venivamo fermate da indiani che volevano fare la foto con loro, e ci mettevano i loro pargoli in braccio, o le loro mogli a fianco…
La sera siamo andati a mangiare qualcosa, e abbiamo anche cercato di recuperare delle birre ma è stato impossibile, uff.




La mattina seguente mi sono svegliata alle 7 e mi sono messa in terrazza a finire di copiare le domande per le interviste, visto che avevo deciso che quel giorno avrei cominciato. Ovviamente mentre scrivevo ogni tanto qualcuno si avvicinava e mi chiedeva stupito “Oh, ma questo è hindi!!! Dove l’hai imparato? Aaaaah, Italia!!! Sonia Gandhi!!! Come ti chiami? Sonia???? Noooo, non è possibile, come la nostra Sonia Gandhi!!!” e via dicendo.
Comunque, quel giorno ho cominciato a fare le interviste, chiedendo informazioni sul turismo, su come loro vedessero i turisti, su come questi ultimi si comportano… E dovevate vederli, questi indiani, come sono tutti contenti nel rispondere alle mie domande, facendosi registrare col mio registratorino super profescional; trovano incredibile che qualcuno s’interessi a ciò che pensano, a cui possono addirittura rispondere in hindi.
Sono stata, tra l’altro, in un dharamsala (una sorta di ‘casa del pellegrino’), e il manager era così gentile e calmo… La figlia mi ha portato a visitare il resto del dharamsala e il tempietto, asserendo che quello era il dharamsala più bello e più antico di Haridwar (mah!).
Quindi il mio ultimo giorno ad Haridwar è trascorso per lo più facendo interviste in giro, e abbiamo poi deciso di partire alla volta di Rishikesh alle 5 di pomeriggio, visto e considerato che Haridwar non ci era piaciuta così tanto, visto che è molto caotica e non c'è granché da vedere, oltre ai templi abbarbicati sull'Himalaya...
Alla prossima, con le mie rocambolesche avventure a Rishikesh!



Baciugi,
Sò!